Autore: Avv. Prof. Aldo Fittante
1. Introduzione (abstract).
2.1. L’azione revocatoria ordinaria.
2.2. La revocatoria fallimentare: i tratti peculiari.
2.3 L’esperibilità della revocatoria con riguardo a talune ipotesi controverse (simulazione, ipoteca, datio in solutum).
3.1. La responsabilità patrimoniale generica e la segregazione patrimoniale: il fondo patrimoniale.
3.2. Trust: La convenzione dell’Aja.
3.3. Il trust in Italia.
3.4. Trust e azione revocatoria.
4. Conclusioni.
1. INTRODUZIONE
Il presente contributo ha l’obiettivo di analizzare compiutamente le dinamiche operative dell’azione revocatoria ordinaria e fallimentare, che a tratti sono parse complesse e articolate dando adito a molteplici questioni applicative. L’analisi si sofferma in particolar modo sui tratti differenziali delle due figure che tradiscono il differente spirito che ha animato la loro codificazione, tratti che tendono a sfumare allorquando l’azione revocatoria ordinaria trasla all’interno delle procedure concorsuali. Tale opzione è rimessa dalla legge fallimentare alla discrezionalità del curatore, scelta che impone un preventivo e oculato vaglio che, alla luce del quadro giuridico che caratterizza la situazione d’insolvenza, permetta di tutelare al meglio le posizioni creditorie. A tal punto, si proverà ad offrire un quadro prospettico dei presupposti applicativi dei due rimedi, che consenta di sciogliere il nodo problematico anzidetto che ha portato una parte della dottrina a predicare l’insufficienza della revocatoria ordinaria azionata nelle procedure fallimentari in quanto lesiva del principio di parità di trattamento. Certo è che, di fronte al fenomeno insolvenza e alla naturale collettività del ceto creditorio, il meccanismo della revocatoria ordinaria è apparso inadeguato in quanto, in forza del principio cardine della par condicio creditorum declinata nell’eguale trattamento dei creditori sull’unico patrimonio aggredibile, si è reputato necessario applicare il principio della parità di trattamento non solo ai creditori concorrenti ma, anche, nei confronti di coloro che lo sarebbero stati se il debitore non avesse estinto quei debiti. Quanto detto impone all’interprete di indagare l’ipotesi in cui l’azione revocatoria sia stata iniziata dal creditore comune anteriormente alla procedura fallimentare, che ha portato taluni a dubitare circa la possibilità ad opera del curatore di poter subentrare e in quale veste nell’azione già intentata o se, lo stesso, possa prescindere dalla medesima azionando in autonomia il rimedio revocatorio sui presupposti esposti dalla legge fallimentare.
In ultimo, occorre indagare i rapporti tra azione revocatoria e responsabilità patrimoniale generica nella quale, da sempre, occupa una posizione centrale il fenomeno della segregazione patrimoniale, di cui costituiscono esplicazione paradigmatica i ben noti istituti del fondo patrimoniale e del trust. Da sempre ci si è chiesti se il debitore possa rifugiarsi in siffatte operazioni negoziali per sfuggire alle maglie delle azioni esecutive intentate dai creditori. E’ pacifica la tensione tra responsabilità e segregazione patrimoniale, tematica sulla quale si è sviluppato un vasto itinerario giurisprudenziale la cui analisi permetterà di affrontare le questioni maggiormente problematiche che sono emerse sul punto.
2.1. L’AZIONE REVOCATORIA ORDINARIA.
L’azione revocatoria[1] costituisce uno degli architravi su cui si fonda la disciplina dei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale cui si aggiungono l’azione surrogatoria e il sequestro conservativo.
L’azione in questione vive in una dimensione pienamente processuale il cui scopo ultimo consiste nel rendere inefficaci, nei confronti del creditore agente, ogni eventuale atto dispositivo idoneo a pregiudicare la capienza patrimoniale. Mediante tale azione, infatti, il debitore non ottiene il soddisfacimento diretto delle sue ragioni, bensì la possibilità di agire mediante l’esecuzione forzata anche presso i terzi, al fine di apprendere tutti i beni usciti dal patrimonio del debitore. La ratio di tale azione risiede, quindi, nella necessità di tutelare il legittimo affidamento del creditore nel poter soddisfare le proprie ragioni aggredendo i beni del debitore. Ciò rende evidente la stretta relazione che lega l’istituto in questione alla garanzia patrimoniale generica; ed infatti, ai sensi dell’art. 2740 c.c., il debitore risponde dell’inadempimento delle obbligazioni da lui assunte con tutti i suoi beni presenti e futuri: eventuali atti dispositivi da lui compiuti in danno dei creditori potranno essere dichiarati inefficaci nei confronti del creditore che agisce in revocatoria.
In effetti, una volta intervenuta la dichiarazione di inefficacia, il bene oggetto dell’atto impugnato deve considerarsi, nei confronti del creditore, come se non fosse mai uscito dal patrimonio del debitore: la sentenza di accoglimento della domanda revocatoria ha come conseguenza quella di consentire al creditore di espropriare i beni alienati a terzi dal suo debitore, pur rimanendo questi nella disponibilità dei medesimi (almeno fino alla vendita coattiva, sul ricavato della quale il creditore potrà soddisfarsi).
Ancora, l’azione de qua opera unicamente a favore del creditore che l’abbia esercitata con successo; gli altri creditori non possono profittarsene, ma devono cautelarsi in maniera autonoma, o esercitando a loro volta l’azione revocatoria o, quanto meno, intervenendo nel procedimento da altri promosso, di modo che l’atto venga dichiarato inefficace anche nei loro confronti.
La specialità della misura consente di contemplare due esigenze altrimenti inconciliabili: il legislatore ha cura di non pregiudicare l’autonomia gestionale del debitore preservando la validità giuridica dell’atto, mantenendo al contempo la capienza patrimoniale a garanzia della soddisfazione delle esigenze creditizie. Da qui la relatività degli effetti dell’azione e la non sottoposizione dell’intero patrimonio ad un vincolo di indisponibilità generico.
Ciò si comprende maggiormente ponendo l’accento sugli effetti della sentenza che accoglie la domanda revocatoria; quest’ultima, non dichiara la violazione di un atto di disposizione del debitore, ma provoca l’inefficacia relativa dell’atto medesimo e la conseguente reintegrazione della garanzia patrimoniale violata in coerenza con la natura costitutiva della medesima[2][3].
Si determina, quindi, in conseguenza della stessa, una modifica della situazione giuridica del destinatario dell’atto revocando, prescindendo dalla sua cooperazione e consentendo l’aggressione del bene oggetto dell’’atto revocato al fine di ricostituire la situazione patrimoniale originaria, immune da atti pregiudizievoli.
Come ben si evince da tale rapida introduzione, è fondamentale per il creditore operare tempestivamente la trascrizione della domanda giudiziale, al fine di rendere noto il giudizio a terzi, e porsi al riparo da eventuali ulteriori atti pregiudizievoli posti in essere sul bene revocando.
Sulla base dei principi generali del nostro ordinamento, infatti, ai sensi dell’art. 2645 n. 5, la domanda di revoca degli atti soggetti a trascrizione deve essere trascritta se ha ad oggetto i diritti di cui all’art. 2643 c.c. In tal modo, la sentenza favorevole potrà essere opposta a tutti coloro che abbiano trascritto o iscritto diritti sul medesimo bene, in seguito alla trascrizione della domanda (cd. effetto prenotativo della trascrizione della domanda giudiziale).
L’azione de qua trova una compiuta disciplina negli articoli 2901 e ss del codice civile, che fissano precisi requisiti operativi delineando compiutamente l’ambito applicativo dell’istituto.
Il primo requisito, dunque, è che si tratti di atti di disposizione del debitore. Difatti, è atto di disposizione quello con il quale il debitore modifica la propria situazione patrimoniale, trasferendo un diritto ad altri, assumendo un obbligo nuovo verso terzi, o costituendo a favore dei medesimi diritti sui propri beni.
Sono così esclusi dall’applicazione gli atti dovuti (ad esempio l’adempimento di un debito scaduto)[4] e gli atti ordinari di amministrazione del bene.
Il secondo requisito è l’esistenza di un pregiudizio concreto, cioè che il credito sia reso non adempibile a seguito dell’atto di disposizione.
Tale pregiudizio può derivare da atti direttamente pregiudizievoli, in quanto diminuiscono il patrimonio del debitore o ne determinano una mutazione qualitativa, ovvero da atti indirettamente pregiudizievoli ove, pur rimanendo invariato quantitativamente il patrimonio, il debitore sostituisca i propri beni con altri meno agevoli da alienare ovvero costituendo sui medesimi diritti reali di garanzia.
Difatti è richiesto, affinché l’atto possa essere colpito da revocatoria, che lo stessi sia doloso (se anteriore all’esistenza del credito) e che il debitore sia a conoscenza del pregiudizio (se posteriore all’esistenza del credito).
E’ possibile la necessità di un quarto requisito per atti a titolo oneroso riguardanti terzi: sono infatti salvi gli effetti per i terzi in buona fede per atti a titolo oneroso. Invece, è possibile agire con la revocatoria se il terzo (in malafede) ha partecipato al dolo (atti anteriori al credito) o conosceva il pregiudizio (atti posteriori al credito) anche se si tratta di atti a titolo oneroso.
Da queste prime premesse si desume come l’azione revocatoria ordinaria presupponga sempre il compimento di un atto di disposizione.
Diversamente da quanto accade nella revocatoria fallimentare, qui il legislatore valorizza anche lo stato soggettivo del debitore (scientia damni o consilium fraudis) oltre che quello del terzo (partecipatio fraudis), ma gli elementi che occorre esaltare per evidenziare i profili discretivi tra l’azione revocatoria ordinaria e quella fallimentare sono altri. Le differenze più marcate le troviamo nella regola che impedisce la revoca dei pagamenti di debiti scaduti (art. 2901, 3º comma, c.c.) ed in quella che, in caso di accoglimento della domanda, pospone il terzo al creditore in sede esecutiva (l’art. 2902, 2º comma, c.c. stabilisce infatti che “il terzo contraente, che abbia verso il debitore ragioni di credito dipendenti dall’esercizio dell’azione revocatoria, non può concorrere sul ricavato dei beni che sono stati oggetto dell’atto dichiarato inefficace, se non dopo che il creditore è stato soddisfatto”).
Queste due regole nel fallimento sono rovesciate e così proprio la revocabilità (fallimentare) dei debiti scaduti e il trattamento paritario del creditore revocato rispetto agli altri (art. 70 l. fall.) sono le pietre miliari della cd. tesi anti-indennitaria[5] [6].
L’azione revocatoria ordinaria presenta, al contrario, una spiccata caratteristica indennitaria, in quanto occorre che il creditore fornisca la prova del danno che un certo atto compiuto dal debitore gli avrebbe arrecato. Non basta, cioè, che vi sia stato un atto dispositivo, ma, come si vedrà fra poco, è necessario che quell’atto abbia diminuito o reso più difficile la conservazione della garanzia patrimoniale.
L’azione revocatoria ordinaria per espressa disposizione contenuta nell’articolo 66 della legge fallimentare può essere esperita, come si è detto, anche nell’alveo della procedura fallimentare. In tale ipotesi l’azione vive nella dimensione applicativa tipica delle procedure fallimentari e, con taluni adattamenti, ne mutua i presupposti applicativi.
Occorre premettere come, gli elementi principali delle azione revocatoria ordinaria all’interno di un fallimento, debbano essere preliminarmente determinati e individuati in base all’art. 2901 c.c, quale fondamento normativo insopprimibile dell’azione in questione anche nel diverso contesto operativo.
Il carattere oggettivo è caratterizzato dalla lesione della garanzia patrimoniale dei beni del debitore, causata dall’atto impugnato nel momento del suo compimento e ancora sussistente nell’esercizio dell’azione. Secondo un orientamento dottrinale, il presupposto oggettivo della revocatoria ordinaria si identificherebbe con lo stato di insolvenza, quando il debitore sia imprenditore commerciale. La giurisprudenza in materia è in linea con la dottrina dominante. Il curatore avrebbe l’onere di provare l’esistenza di ragioni creditorie, tra quelle ammesse allo stato passivo, insoddisfatte al momento del compimento dell’atto di disposizione, e la successiva consistenza quantitativa e qualitativa del patrimonio del debitore, risultando unicamente da tale raffronto l’effettivo pregiudizio arrecato ai creditori.
L’eventus damni non si verifica soltanto quando si perde la garanzia patrimoniale offerta dal debitore, ma anche quando si verifica una maggiore difficoltà, incertezza o dispendio nell’esecuzione coattiva del credito. Nella realtà pratica, tale eventualità si concretizza, ad esempio, a seguito di una sostituzione di beni reperibili e aggredibili con facilità, con altri che risultano essere di più difficile individuazione, seppur considerati di maggior valore. La valutazione in merito alla maggiore difficoltà o incertezza del recupero del credito deve essere effettuata ex ante, ovverosia avendo come tempo di riferimento il momento dell’atto di disposizione.
L’azione revocatoria ordinaria esercitata in sede fallimentare non si può estendere oltre l’applicazione prevista dall’art. 2901 c.c.
Vengono perciò esclusi dalla revocatoria: il pagamento di debiti scaduti e la costituzione di garanzie per i debiti scaduti.
Come già accennato all’inizio della trattazione, l’azione revocatoria ordinaria può essere esperita anche nei confronti di atti compiuti nel periodo sospetto in via alternativa con la revocatoria fallimentare.
La scelta tra le due azioni alternative non spetta al convenuto, bensì al curatore. La revocatoria fallimentare è altresì possibile in sede di verifica dello stato passivo, atteso il potere-dovere del giudice delegato di escludere i crediti non provati con certezza e le garanzie che possono arrecare pregiudizio alla massa dei creditori, salvo il successivo accertamento nell’eventuale procedimento di opposizione. Si ritiene che le esenzioni previste per la revocatoria fallimentare siano applicabili anche per la revocatoria ordinaria azionata in sede concorsuale, giacché in tali ipotesi mancherebbe il requisito del danno. D’altronde, a parere di chi scrive, una attenta esegesi della legge fallimentare permette di acclarare come, allorquando la stessa eccettua taluni atti dal campo applicativo della revocatoria anche in relazione ad un determinato arco temporale, introduce una autonoma valutazione di rischiosità dei medesimi in termini di nocumento per le ragioni della compagine creditoria.
L’art. 2901 c.c richiede che l’atto di disposizione sia concretamente pregiudizievole e che il patrimonio residuo sia insufficiente al soddisfacimento dei creditori, oltre al presupposto di malafede variamente configurato (conoscenza del pregiudizio, dolosa preordinazione) e del presupposto oggettivo (danno ai creditori). L’inefficacia ex lege (artt. 64 e 65) e la revocabilità (art. 67) riguardano gli atti che pregiudicano la garanzia patrimoniale, qualunque sia la tipologia di appartenenza, anche se non compiuti dal debitore, i quali rileveranno qualora siano riferibili all’anno o al semestre anteriore al fallimento. Gli atti compiuti in precedenza possono essere impugnati con revocatoria ordinaria, purché proposta nel termine quinquennale che decorre dalla data di compimento dell’atto impugnato e comunque entro i tre anni dalla dichiarazione di fallimento (art. 69 bis). L’ambito di applicazione della revocatoria ordinaria è più ristretto, potendo essere impugnati soltanto gli atti di disposizione compiuti dal debitore.
Non sono revocabili ex art. 2901 c.c. gli atti dovuti che non possono essere considerati atti di disposizione, quindi l’adempimento di un debito scaduto (art. 2901 3° comma c.c.), ma, anche, la stipulazione di un contratto definitivo in adempimento di un preliminare. Si disputa se sia revocabile la costituzione di garanzia per debiti scaduti. Si ritiene, inoltre, che gli atti di amministrazione, non possono essere considerati atti di disposizione: non è perciò revocabile la locazione immobiliare, salvo che sia di lunga durata (viene infatti revocata la locazione ultranovennale).
Esentati dal perimetro applicativo della revocatoria sono anche gli atti posti in essere da terzi ed incidenti sul patrimonio del debitore che non sono, per l’appunto, “atti di disposizione compiuti dal debitore”; non sono quindi revocabili le ipoteche giudiziali, gli atti di esercizio di un diritto di prelazione o di opzione ecc.
2.2. LA REVOCATORIA FALLIMENTARE.
La revocatoria fallimentare mutua dall’omonima figura taluni requisiti strutturali condividendone l’obiettivo finale ovvero la tutela della par condicio creditorum, ancorchè traslata nella particolare dimensione fallimentare. Occorre soffermarsi brevemente sugli aspetti che, come si è detto, caratterizzano la revocatoria fallimentare, che si evincono con immediatezza volgendo lo sguardo al panorama normativo individuato dagli articolo 64 e ss della legge fallimentare.
Innanzitutto, si pone l’accento sulla assoluta irrilevanza dello stato emotivo del debitore, si tratta del più rilevante indizio del carattere anti-indennitario che ne costituisce l’intima essenza infatti, l’apertura del fallimento segna il momento sul quale calcolare l’arco temporale in cui qualunque atto compiuto palesa la sua idoneità lesiva, a prescindere dall’atteggiamento fraudolento del disponente-debitore.
Altro tratto distintivo si individua nella nozione di danno che, mentre nella revocatoria ordinaria rientra tra i presupposti applicativi la cui prova spetta al creditore agente, al contrario, nella fallimentare è implicitamente ricondotto all’inefficacia dell’atto compiuto nel cosiddetto periodo sospetto legale (6 mesi o l’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento).
Con riguardo invece allo stato soggettivo del terzo, possono distinguersi due ipotesi: quella descritta dagli art 64 e 65 l. fall. in cui non rileva e quella identificata dall’articolo 67 l. fall. in cui, invece, si erge a presupposto di operativià. Con riguardo alla prima ipotesi, la scientia fraudis non rileva qualora l’azione involga, sia gli atti a titolo gratuito, che i pagamenti anticipati di crediti i quali scadono al momento dell’apertura del fallimento o posteriormente se compiuti nei 2 anni precedenti dal fallito. Nel primo caso, la gratuità dell’atto non impone di salvaguardare in alcun modo la sfera giuridica di un soggetto terzo che abbia tratto un vantaggio dall’atto revocato in assenza di alcun sacrificio patrimoniale. La seconda ipotesi, invece, configura una vera e propria sanzione di inefficacia in quanto il legislatore non accetta, in ottica di equità sostanziale, che siano pagati prioritariamente soggetti il cui credito non sia ancora esigibile tenuto conto del fatto che, a concorrere nel fallimento, vi saranno creditori i cui debiti siano già scaduti e che, tuttavia, non abbiano ancora ottenuto la soddisfazione piena delle proprie pretese.
Motivando a contrario, si realizzerebbe una macroscopica violazione della par condicio creditorum la cui tutela, invece, costituisce il sostrato sostanziale su cui si erge la disciplina della revocatoria fallimentare.
L’articolo 67 l.fall. disciplina le ipotesi in cui lo stato soggettivo del terzo rileva ancorchè in una duplice declinazione: il primo comma prevede una presunzione relativa dello stato di insolvenza del debitore da parte del soggetto passivo. Per superare tale presunzione, il terzo dovrà fornire la prova con ogni mezzo della propria inscientia decoctionis, la quale può ritenersi sussistente solo in presenza di circostanze esterne, concrete e specifiche, tali da indurre ragionevolmente un soggetto di ordinaria prudenza e avvedutezza, a ritenere che l’imprenditore si trovasse in una situazione di normale esercizio dell’impresa[7].
Nel secondo comma dell’articolo si prevede un’inversione dell’onere della prova: infatti in questo caso spetterà al curatore provare la conoscenza da parte del terzo dell’effettiva consapevolezza della situazione finanziaria dell’imprenditore; gli elementi nei quali si traduce la conoscibilità possono costituire elementi indiziari da cui legittimamente desumere la scientia decoctionis [8] [9] [10].
2.3. L’ESPERIBILITÀ DELLA REVOCATORIA CON RIGUARDO A TALUNE IPOTESI CONTROVERSE (SIMULAZIONE, IPOTECA, DATIO IN SOLUTUM).
Volgendo lo sguardo ad alcune questioni particolarmente dibattute ci si è chiesti se, una volta entrati nella fase concorsuale, il curatore possa sostituirsi al creditore che abbia già intentato un’azione revocatoria ordinaria, o se sia necessario promuovere ex novo una nuova azione sulla base del diverso articolato normativo di cui alla legge fallimentare.
Si tratta di una questione particolarmente dibattuta, che non trova nel dettato normativo una compiuta risposta, anzi molteplici sono gli interrogativi che si sono sollevati nel dibattito dottrinario e giurisprudenziale. Innanzitutto occorre capire se, a seguito dell’esercizio dell’azione da parte del curatore, il giudizio di revocatoria ordinaria attivato dal creditore debba interrompersi e quando (con la dichiarazione di fallimento, o solo nel momento in cui curatore sia subentrato nell’azione?), e se il creditore perda la legittimazione processuale o sostanziale a proseguire l’azione iniziata.
In tale ambito, si sono da tempo contrapposte due opinioni: la prima, prevalentemente espressa dalla dottrina, secondo cui l’azione del curatore può coesistere parallelamente all’azione del creditore; la seconda avallata con forza dalla giurisprudenza, secondo cui le due azioni sono incompatibili nel contesto della medesima procedura concorsuale. In particolare, secondo questa opinione, la dichiarazione di fallimento comporterebbe senz’altro l’improcedibilità dell’azione del creditore.
La giurisprudenza della Cassazione, con un risolutivo intervento a Sezioni Unite, ha dipanato ogni dubbio ermeneutico, dettando taluni principi che sono divenuti ormai diritto vivente.
Le sentenze del 2008 n. 29420 e 29421 delle SS.UU. della Corte di Cassazione hanno stabilito che il creditore perde la legittimazione processuale ad agire, nel momento in cui il curatore subentra nell’azione in forza della legittimazione accordatagli dall’art. 66 l. fall. e, dunque, che la legittimazione processuale del creditore permane fintanto che il curatore non decida di subentrare nel giudizio. La Cassazione ha, quindi, confermato che l’azione del creditore e l’azione del curatore non possono coesistere “parallelamente” in costanza di fallimento; tuttavia il creditore è libero di proseguire la sua azione se il curatore non subentra nell’azione del creditore e si accerta che il medesimo non ha agito in altre sedi per esercitare un’analoga azione ai sensi dell’art. 66 l. fall., relativa al medesimo atto di disposizione.
Il presupposto delle due decisioni delle Sezioni Unite della Suprema Corte è che l’azione del creditore non diviene improcedibile a seguito della dichiarazione di fallimento del debitore, bensì solo a seguito dell’eventuale intervento del curatore[11].
Si tratta di una soluzione che manifesta l’abile capacità nomofilattica della Suprema Corte con la quale si è giunti ad un punto mediano tra opposte esigenze; da un lato la non automatica improcedibilità dell’azione già intentata dal creditore individuale a seguito del fallimento consente di non pregiudicare la legittima aspettativa di tutela, qualora il curatore non si attivi per proseguire l’azione. Motivando al contrario, il fallimento potrebbe costituire una valida ancora di salvezza per il debitore-fallito, dato che la paralisi processuale della revocatoria ordinaria comprometterebbe l’esigenza di tutela connessa alla garanzia patrimoniale generica.
Qualora invece il curatore – in omaggio alle sue prerogative – intervenga nel giudizio già avviato, quale conseguenza inevitabile si avrebbe l’esclusione del creditore procedente. Ciò trova compiuta giustificazione volgendo lo sguardo all’essenza del fallimento quale fatto giuridico nel quale l’ordinamento impone che le prerogative del singolo creditore siano postposte e traslino in quelle della massa dei creditori, con piena coincidenza tra le medesime e la cui tutela è affidata all’unico soggetto giuridico ovvero il curatore, mediante la sola revocatoria fallimentare.
Andando avanti nella trattazione, occorre soffermarsi sul rapporto tra azione revocatoria e simulazione; si tratta di un tema di rilevante impatto anche per le molteplici sfaccettature che lo stesso presenta, sia allorquando l’azione è proposta dal curatore fallimentare, sia quando a quest’ultimo è opposta in via di eccezione. Dirimenti sul punto sono le pronunce della Cassazione che si apprezzano anche per gli importanti spunti forniti in chiave teorico-dogmatica.
I referenti normativi attraverso i quali inquadrare la tematica sono gli articoli 2704 e 2722 c.c. in combinato disposto con l’articolo 1417 in tema di simulazione.
Occorre innanzitutto fare due preliminari precisazioni che danno contezza dell’in sé del problema.
Innanzitutto, l’esperimento dell’azione di simulazione presenta una rilevante importanza sia per il curatore che per il terzo convenuto.
Con riguardo al primo profilo, l’emersione di un prezzo simulato che celi la gratuità dell’atto o uno squilibrio economico di oltre un quarto ai danni del debitore-fallito determina una rilevante agevolazione in termini probatori; con maggiore impegno esplicativo, si può ipotizzare il caso in cui un contratto di compravendita celi in realtà una donazione, la cui gratuità determina l’inefficacia automatica dell’’atto a prescindere dalla prova della scientia decotionis. Qualora invece le parti realizzino una simulazione relativa del prezzo, in cui risulti tralatiziamente pagato l’intero importo (pari al valore del bene) mentre in realtà, quest’ultimo sia di oltre un quarto inferiore al reale valore dell’immobile, sarà il convenuto a dover eccepire la non conoscenza dello stato di insolvenza, in adesione al meccanismo dell’inversione dell’onere probatorio di cui all’articolo 65 comma 1 l. fall.. Quest’ultimo, come si detto, può a sua volta trarre beneficio dalla prova dell’effettiva corresponsione del prezzo e del suo reale ammontare in quanto, qualora l’atto sia oneroso, sarà il curatore ad essere onerato della prova dello stato soggettivo del terzo, il quale subirà la revocatoria solo qualora sia stato a conoscenza al momento dell’atto dello stato di decozione in cui versava il debitore.
E’ indubbio che il curatore, qualora agisca in giudizio, possa provare la sussistenza del patto dissimulato attraverso la prova per testimoni giacché rappresentante della massa dei creditori e quindi terzo ai sensi dell’articolo 1417 cc.. Molto più complessa è la posizione del terzo convenuto, eventuale acquirente del bene immobile, in quanto parte dell’accordo; quest’ultimo, oltre a non beneficiare della prova testimoniale, ha un duplice e gravoso onere probatorio in quanto, qualora intenda opporre al curatore del fallimento del venditore la simulazione relativa del prezzo della compravendita, ha l’onere di provare l’esistenza del patto aggiunto e contrario al contratto, anteriore o contestuale allo stesso, attraverso documenti opponibili al curatore ai sensi dell’art. 2704 c.c. che, non solo dimostrino l’avvenuto pagamento, ma che consentano, anche per il loro contenuto, di ricollegare l’atto solutorio al negozio di cui costituirebbe esecuzione (Cass. nn. 1759/08, 4285/05, 2097/92).
La giurisprudenza sul punto, mentre ammette pacificamente la prova presuntiva con riguardo al collegamento negoziale, non ritiene la mera allegazione dei pagamenti sufficiente a provare l’anteriorità rispetto al fallimento dell’accordo dissimulato ancorchè, per la loro datazione, siano ricollegabili a tale arco temporale.
La certezza della data del pagamento, ad esempio effettuato tramite assegni, non è fatto di per sè idoneo a conferire certezza alla data del contratto dissimulato e che, in difetto di prova dell’anteriorità di tale atto al fallimento, il terzo è esposto all’azione revocatoria[12].
Andando avanti nella trattazione, occorre focalizzare l’attenzione sul punto due del primo comma dell’art. 67 l.fall. che affronta il problema degli atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento ed effettuati con mezzi di pagamento non convenzionali.
Il motivo per il quale il legislatore ha deciso di revocare tali atti è da ricercare nel fatto che, se l’imprenditore adempie alle proprie obbligazioni con mezzi inusuali, si presume che questo sia un atteggiamento che faccia intendere al terzo che conclude l’atto con il fallito lo stato di insolvenza in cui versa quest’ultimo al momento della conclusione dell’atto.
Qualificare un pagamento in termini di anormalità o meno ha una notevole importanza in funzione del differente regime giuridico che si ricollega al relativo accertamento: ciò in quanto, a seconda dei casi, ci si trova di fronte all’applicazione del primo o del secondo comma dell’art. 67 l. fall.; questa differenza non risulta di poco conto, infatti l’onere della prova nei due casi è notevolmente differente.
In dottrina la maggior parte degli autori sostiene che per pagamenti normali, si deve intendere solo quelli effettuati con denaro o con effetti di normale uso commerciale, teoria accolta anche dalla giurisprudenza, mentre secondo un orientamento minoritario la valutazione circa la normalità o l’anormalità di un pagamento, va effettuata non in astratto, e cioè in base a criteri oggettivi riconosciuti validi per tutti i casi che si possono presentare nella realtà, ma in concreto, vale a dire con specifico riferimento alle singole situazioni di fatto.
La datio in solutum rappresenta il pagamento tipico e più diffuso tra i mezzi di pagamento anormali.
Tale figura si declina sotto molteplici forme, quella più frequente è l’ipotesi di un compratore che, non essendo in grado di pagare il prezzo stabilito, restituisce la merce acquistata ad estinzione dell’obbligazione originaria; un’altra ipotesi si verifica quando l’imprenditore, essendo debitore di una somma di denaro, concorda con il creditore una prestazione di servizi ad estinzione del pagamento; un ulteriore ipotesi potrebbe essere rappresentata dall’accordo tra il fallito ed il venditore di vendere la merce del primo e in modo da soddisfare il proprio credito.
La Cassazione, con un orientamento ormai granitico si è espressa sul punto qualificando la datio in solutum in termini di pagamento anomalo. Secondo la Suprema Corte[13] questo negozio giuridico (nella specie attuato mediante la cessione di beni con imputazione del prezzo a compensazione di un debito scaduto), costituisce modalità anomala di estinzione dell’obbligazione ed è, quindi, assoggettabile all’azione revocatoria ordinaria promossa dal curatore ex art. 66 l.fall..
Si sottrae all’inefficacia ai sensi dell’art. 2901 comma 3 c.c. solo l’adempimento di un debito scaduto in senso tecnico e non un atto discrezionale, dunque non dovuto, come la predetta cessione, in cui l’estinzione dell’obbligazione è l’effetto finale di un negozio soggettivamente ed oggettivamente diverso da quello in virtù del quale il pagamento è dovuto.
3.1. LA RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE GENERICA E LA SEGREGAZIONE PATRIMONIALE: IL FONDO PATRIMONIALE
Entrando nel cuore della trattazione, occorre soffermarsi sulla tematica di più rilevante impatto a fini dell’odierno contributo, imponendosi una disamina compiuta dei rapporti tra azione revocatoria e creazione di patrimoni separati, quali atti che si pongono in tensione con la responsabilità patrimoniale generica.
Per responsabilità patrimoniale generica si intende il principio in forza del quale il debitore risponde dell’adempimento delle proprie obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri e che, le limitazioni di questa responsabilità, sono ammissibili solo nei casi stabiliti dalla legge (art. 2740 c.c.). Fatte salve le eccezioni previste espressamente dal dettato normativo, tutti i beni del debitore sono posti a garanzia dell’adempimento delle sue obbligazioni (c.d. garanzia patrimoniale generica).
Tra le deroghe al principio appena descritto, sempre più frequenti nella legislazione recente, si segnalano i cosiddetti patrimoni separati o di destinazione e i patrimoni autonomi.
Con l’espressione patrimonio separato, accogliendo i risultati della prevalente dottrina in materia, si intende descrivere quella situazione per la quale una determinata massa patrimoniale viene diversificata dal rimanente patrimonio del soggetto, per essere destinata ad assolvere una peculiare funzione.
Ne consegue pertanto che tra patrimonio generale e separato si configuri una differenza non soltanto quantitativa ma anche qualitativa, poiché la destinazione ad uno scopo modifica l’intera fisionomia della massa separata, con inevitabili implicazioni nel regime giuridico applicabile.
Indubbiamente tra gli istituti di maggiore rilievo ai fini della tematica esaminata non può non citarsi il fondo patrimoniale.
Introdotto per la prima volta dalla riforma del diritto di famiglia del 1975, il fondo patrimoniale (art. 167 c.c. e ss.) è un vincolo di destinazione posto nell’interesse del nucleo familiare su un complesso di beni determinati (immobili, mobili registrati o titoli di credito) destinati in questo modo unicamente al soddisfacimento dei diritti di mantenimento, assistenza e contribuzione derivanti dalla famiglia stessa.
La funzione precipua del fondo patrimoniale è, infatti, quella di sottrarre determinati beni appartenenti ai coniugi alla possibilità di esecuzione forzata da parte dei creditori in relazione a debiti facenti capo ai coniugi stessi.
Il suo effetto principale è che, per legge, i beni che vi sono compresi (e i loro redditi) non possano essere aggrediti dai creditori divenuti tali dopo la costituzione del fondo per scopi estranei ai bisogni della famiglia.
Nonostante l’originaria intenzione del legislatore di conferire all’istituto in esame una vera e propria funzione di tutela dei bisogni della famiglia, i giudici di merito e di legittimità si sono comunque interrogati sul possibile uso fraudolento di siffatto istituto e sugli effetti potenzialmente lesivi degli interessi dei creditori adottando, sempre più di frequente, soluzioni inclini ad una maggiore tutela degli interessi dei creditori.
Ci si è chiesti, quindi, se l’atto costitutivo di un fondo patrimoniale possa essere assoggettato ad azione revocatoria e se a sua volta possa essere considerato a titolo gratuito.
Il fondo patrimoniale non è costituito in adempimento di un dovere giuridico (ad esempio ex art. 143 c.c.), potendosene così escludere l’obbligatorietà per legge e, parimenti, l’atto costitutivo ha carattere di atto a titolo gratuito, privo di remunerazione in favore del disponente.
Da ciò discende la possibilità di esperire l’azione revocatoria ordinaria, ai sensi dell’’art. 2901 c.c. e con gli effetti dell’art. 2902 c.c., in presenza dei requisiti previsti per tali atti: credito dell’attore in revocatoria, eventus damni e scientia damni.
Più specificatamente, ai fini dell’eventus damni dell’art. 2901 c.c. non è richiesto, tuttavia, che la destinazione patrimoniale renda impossibile la soddisfazione del credito, bastando il solo aggravamento del pericolo dell’incapienza del restante patrimonio del debitore.
Questo va ravvisato, nel caso di costituzione di fondo patrimoniale con trasferimento della proprietà (o di una quota di essa), nella perdita della garanzia patrimoniale generica offerta dalla titolarità del bene in capo al soggetto che ha costituito il fondo.
Nell’ipotesi, invece, di costituzione del fondo su beni già di proprietà dei coniugi il pregiudizio alle ragioni dei creditori ben può essere ravvisato in quel vincolo di limitata e condizionata inespropriabilità che l’art. 170 c.c. contempla.
In tal senso si è espressa la Suprema Corte con la sentenza 7 marzo 2005, n. 4933, secondo cui la costituzione del fondo patrimoniale può essere dichiarata inefficace nei confronti dei creditori a mezzo azione revocatoria ordinaria, in quanto rende i beni conferiti aggredibili solo a determinate condizioni (art. 170 c.c.), così riducendo la garanzia generale spettante ai creditori sul patrimonio dei costituenti.
Mentre, per quanto concerne il requisito soggettivo, ove la costituzione del fondo sia successiva all’insorgenza del credito, si ritiene che sia necessaria e sufficiente la mera consapevolezza o conoscibilità ad opera del debitore di arrecare pregiudizio agli interessi del creditore (scientia damni), senza che assumano rilevanza l’intenzione di ledere la garanzia patrimoniale generica del creditore (consilium fraudis).
Per quanto attiene il termine di prescrizione dell’azione revocatoria ordinaria, secondo la giurisprudenza, in applicazione del combinato disposto di cui agli artt. 2903 e 2935 c.c., esso decorrerebbe non già dal momento del compimento dell’atto, bensì dal giorno in cui ne è data pubblicità ai terzi, difatti, soltanto da quel momento il diritto può essere fatto valere.
3.2. IL TRUST: LA CONVENZIONE DELL’AJA.
La convenzione de L’Aja, relativa alla legge sui Trusts ed al loro riconoscimento, sottoscritta il 01/07/1985, resa esecutiva in Italia con legge 16 ottobre 1989 n. 364, entrata in vigore il 01 gennaio 1992, non detta norme di diritto uniforme o a carattere sostanziale ma, ai sensi dell’art. 1, determina la legge applicabile ai trust e ne regola il riconoscimento. La nozione di trust, fissata ai sensi del successivo articolo 2, è incentrata sui rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine determinato. Viene richiesta la ricorrenza dei seguenti elementi: «a) I beni in trust costituiscono una massa distinta e non sono parte del patrimonio del trustee; b) I beni in trust sono intestati al trustee o ad un altro soggetto per conto del trustee; c) Il trustee è investito del potere e onerato dell’obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme imposte dalla legge al trustee»[14].
Il trustee diventa, quindi, titolare di una situazione giuridica peculiarmente complessa: da un lato, egli ha i poteri di amministrazione ed anche di disposizione dei beni, dall’altro lato è obbligato ad amministrare e disporre di essi conformemente alle istruzioni del disponente e nell’interesse del beneficiario. Il vincolo di destinazione impresso sui beni indicati nel trust, pure formalmente intestati al trustee, a livello soggettivo possiede una rilevanza reale ed esterna, opponibile a tutti.
Quanto agli effetti, «i beni in trust rimangono distinti dal patrimonio personale del trustee; il trustee ha la capacità di agire ed essere convenuto in giudizio, di comparire in qualità di trustee, davanti a notai o altre persone che rappresentino un’autorità pubblica» (art. 11). Sempre in forza dell’art. 11 «la rivendicazione dei beni in trust é permessa nella misura in cui il trustee, violando le obbligazioni risultanti dal trust, abbia confuso i beni in trust con i propri o ne abbia disposto».
Vi sono poi alcune clausole di salvaguardia. L’art. 13 stabilisce che: «Nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi significativi, ad eccezione della scelta della legge applicabile, del luogo di amministrazione o della residenza abituale del trustee, siano collegati più strettamente alla legge di Stati che non riconoscono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione».
L’art. 15, di particolare rilievo per la presente trattazione, fa salvo il principio dell’ordine pubblico, precisando che: «La Convenzione non costituisce ostacolo all’applicazione delle disposizioni della legge designata dalle norme del foro sul conflitto di leggi quando con un atto volontario non si possa derogare ad esse»[15].
Infine, l’art. 18 precisa che «Le disposizioni della Convenzione possono essere disattese qualora la loro applicazione sia manifestamente contraria all’ordine pubblico» ove, per ordine pubblico, devesi intendere l’ordine pubblico internazionale e non la nozione più ampia di diritto interno.
3.3. IL TRUST IN ITALIA.
Nel rapporto di trust, estraneo alla tradizione giuridica italiana, convergono vari soggetti, o meglio, vari agenti: il settlor è colui che compie l’atto di disposizione e che può riservarsi determinati diritti di ingerenza sul patrimonio costituito in trust, il trustee ha l’amministrazione dei beni di cui acquista la proprietà vincolata peraltro agli scopi del trust, i beneficiari acquistano il diritto all’intestazione dei beni al momento dello scioglimento del trust e possono vantare diritti agli utili o ad attribuzioni di denaro in pendenza del trust, se l’atto di costituzione lo prevede.
Ne deriva una segregazione della relativa posizione giuridica soggettiva nel patrimonio del soggetto terzo cui sono trasferiti. Ed i beni trasferiti, pur appartenendo al trustee, non sono suoi: il diritto trasferito, non limitato nel suo contenuto, lo è invece nel suo esercizio, essendo finalizzato alla realizzazione degli interessi dei beneficiari[16]. A tale schema fa eccezione il trust autoistituito, in cui la segregazione avviene nell’ambito del patrimonio del disponente stesso, che è settlor e trustee.
Dal punto di vista effettuale, il meccanismo comporta che i creditori del settlor non possano soddisfarsi sui beni conferiti in trust poichè essi sono nella proprietà del trustee; che i creditori del trustee non possano del pari soddisfarsi perché i beni sono oggetto di segregazione; che i creditori dei beneficiari possano soddisfarsi soltanto sulle attribuzioni che in pendenza di trust sono loro effettuate. Soltanto allo scioglimento del trust i creditori dei beneficiari potranno soddisfarsi su quanto è loro attribuito.
Sul versante del diritto interno, la ratifica in Italia della convenzione dell’Aja ha a lungo occupato gli interpreti. Il nodo problematico attiene al proprium della legge di recepimento la quale presenta natura ancipite e si attesta nel panorama giuridico in termini di unicità rispetto al normale sistema di ratifica delle convenzioni in quanto, pur disciplinando l’eventuale conflitto tra norme interne e straniere, ha prodotto l’ulteriore effetto di riconoscere, da parte dello Stato aderente, gli effetti di un istituto giuridico straniero. Questa contraddizione in termini si è posta al centro di un acceso dibattito, tuttora non sopito, che occorre brevemente riassumere.
La Convenzione, infatti, anche se si limita a stabilire norme di collegamento uniformi per la determinazione della legge regolatrice del trust, ha subito mostrato la sua idoneità a consentire ai privati, anche all’interno di Stati che non riconoscono questa figura, di istituire dei trust, sia pur facendo riferimento come legge regolatrice alla legge di un paese che preveda nell’ambito del proprio ordinamento tale istituto e lo regoli, ovviando, quindi, alla lacuna normativa, ma non dimostrando alcun altro significativo elemento di internazionalità. Si avrà, in tal caso, non un trust internazionale, bensì un trust di diritto interno. Tale prospettiva, lungi dall’esser pacificamente accolta, ha trovato, a parer di alcuni interpreti, un ostacolo nel summenzionato art. 13 della Convenzione. Ancor di recente, infatti, una Corte di merito[17], ha diffusamente argomentato nel senso che la norma di cui al richiamato art. 13 sia rivolta al legislatore, e non agli interpreti, e che, quindi, sia impossibile riconoscere validità al trust interno ed a quello auto dichiarato in assenza di previsioni normative espresse. Infine, è invalsa la prassi del trust “interno”, nel quale unico significativo elemento di internazionalità della fattispecie è rappresentato dalla legge sostanziale applicabile scelta dal disponente, vale a dire un trust i cui elementi obiettivi siano tutti connessi all’ordinamento nazionale dello Stato contraente, ad eccezione della legge regolatrice, scelta dai contraenti o stabilita dalla Convenzione secondo i principi stabiliti dagli artt. 6 e 7. Sul punto occorre precisare come il panorama giuridico non sia spoglio da prese di posizione proveniente dal massimo consesso della giustizia civile, che arrivano a importanti approdi con riguardo alla tipicità del trust interno.
Da ultimo, la Cassazione a sezione semplice[18], ha espressamente statuito come il trust, mediante la legge di recepimento, abbia pacificamente assunto il rango di istituto espressamente tipizzato dal legislatore; si tratta di un punto il quale, ancorchè appaia in prima battuta poco rilevante, condiziona invero profondamente la diversa ampiezza del sindacato di meritevolezza del tipo legale.
Va premesso che le parti sono libere, nella loro autonomia negoziale sancita dall’articolo 1322 c.c., di regolare i propri interessi ponendo in essere, sia contratti tipizzati dal legislatore che non rientranti nel panorama giuridico, detti appunto atipici.
Di fronte ad un atto giuridico atipico, il giudice deve compiere un duplice vaglio di meritevolezza di natura positiva, accertando che l’atto di autoregolamentazione, in relazione allo scopo pratico perseguito, non collida con i superiori parametri costituzionali e sia diretto alla soddisfazione di interessi socialmente rilevati.
In relazione ad un contratto espressamente tipizzato il giudizio di meritevolezza assume, invece, una dimensione meramente negativa; l’interprete pertanto deve limitarsi alla mera constatazione che il contratto rientri nello schema tipico e non collida con gli obiettivi ultimi cui è orientata la nostra Carta Costituzionale, poiché il vaglio di meritevolezza, nella precedente ipotesi rimesso al giudice, è già stato compiuto ex ante dal legislatore con il riconoscimento del tipo legale[19].
A fugare ogni dubbio il merito alla piena legittimità del trust interno soccorre oggi la previsione di cui all’articolo 2645 ter c.c. la quale prevede la costituzione di patrimoni separati finalizzati alla tutela di soggetti in posizione di debolezza sociale il cui fine permea la causa dell’intera operazione negoziale, alla stregua di un meccanismo operativo assimilabile nei tratti essenziali alla figura del Trust.
In altri termini, il vincolo ex art. 2645 ter c.c. isola i beni oggetto dell’atto di destinazione dal patrimonio generale del soggetto che ne è il titolare, in modo da destinarli al perseguimento del fine, per il quale l’atto di destinazione è stato istituito sottraendoli, quindi, alle più svariate vicende che possono verificarsi.
La nuova norma in questione rappresenta una rilevante eccezione all’articolo 2740 c.c. per effetto della quale, ciascun soggetto risponde delle obbligazioni con tutti i propri beni presenti e futuri. Infatti, secondo quanto prescrive testualmente l’articolo 2645-ter c.c., per effetto della trascrizione dell’atto istitutivo di un vincolo di destinazione, quest’ultimo diviene opponibile ai terzi e i beni vincolati e i loro frutti sono sottratti a qualsiasi azione esecutiva.
Ragion per cui il vincolo, una volta trascritto, consente di aggredire il patrimonio del soggetto-debitore secondo i principi generali, ma non i beni oggetto del vincolo, che restano così isolati dal patrimonio del debitore-aggredito.
A favore dell’ammissibilità dell’istituto in parola depone, inoltre, la disciplina legislativa intervenuta a delinearne il trattamento fiscale: in particolare gli artt. 44 e 73 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi, in tema di imposte dirette, e ancora, l’art. 2, co. 49, D.L. n. 262 del 2006 che, nel reintrodurre l’imposta sulle successione e donazioni, ha determinato le aliquote indirette, alla quali sono soggetti i trasferimenti di beni dal disponente al trustee.
Infatti, la giurisprudenza più recente si è occupata dell’istituto in parola prevalentemente sotto il profilo fiscale.[20]
Occorre fin da ora precisare come il nostro ordinamento non conosca un unitario e rigido modello di trust, ma tanti possibili schemi che possono essere attuati in vista di una finalità ultima da raggiungere.
Come si è già detto, soggetti del trust o, più correttamente, le “posizioni giuridiche”, sono generalmente tre: una è quella del disponente (o settlor o grantor), cioè colui che promuove/istituisce il trust, mentre la seconda è rappresentata dall’amministratore/gestore trustee. Il disponente intesta beni mobili/immobili all’amministratore, il quale ha il potere-dovere di gestirli secondo le “regole” del trust fissate dal disponente. La terza è quella del beneficiario (beneficiary), espressa o implicita.
Il disponente ha la facoltà di modellare all’interno del perimetro normativo di riferimento le regole del trust nel modo che ritiene più aderente alla soddisfazione dei propri interessi; ecco che, non è estranea al nostro ordinamento la figura del trust autodichiarato[21] [22], ovvero quella in cui vi è coincidenza formale tra disponente e trustee.
La costituzione di patrimoni separati determina una tensione inevitabile con il principio di universalità della responsabilità patrimoniale del debitore di cui all’articolo 2740 c.c. in quanto sottrae poste attive del patrimonio alla garanzia patrimoniale e le esonera dalle eventuali azioni esecutive dei creditori a garanzia dei rapporti obbligatori.
Le criticità appena accennate trovano compiuta soluzione nell’intelaiatura normativa della convenzione.
Data per acclarata la pacifica ammissione del negozio giuridico in questione, è incontestato che le ragioni creditorie siano salvaguardate da eventuali utilizzi strumentali dell’istituto, grazie alla richiamata previsione dell’art. 15 della medesima Convenzione, alla cui stregua l’istituzione di un trust interno (locuzione, quest’ultima, con la quale si allude a quel trust che deduce beni principalmente localizzati in un Paese diverso da quello il cui ordinamento è stato scelto ai fini della disciplina dello stesso istituto giuridico) non può pregiudicare indebitamente i creditori del disponente (v. lett. e, art. 15, in materia di protezione dei creditori in caso di insolvenza)[23].
L’articolo in esame fa salva l’esperibilità di tutte le azioni poste a tutela delle ragioni creditorie, occorre quindi soffermarsi sul rapporto tra azione revocatoria e trust.
3.4. TRUST E AZIONE REVOCATORIA.
Nella cornice del richiamato articolo 15 occorre rilevare che, di norma, l’atto direttamente pregiudizievole delle ragioni creditorie non è l’istituzione del trust, ma il successivo negozio con cui i beni facenti parte del patrimonio del disponente vengono trasferiti al trustee[24].
A tal uopo, sarà anzitutto necessario valutare la natura del trust ovvero certificare se lo stesso costituisca un atto a titolo gratuito[25] o a titolo oneroso; si tratta di un’operazione ermeneutica di grande rilievo applicativo la quale presenta importanti ripercussioni in punto di agevolazione dell’onere probatorio in ordine all’elemento soggettivo della scientia damni[26].
Se l’atto è a titolo oneroso, per agire in revocatoria oltre alla frode ed al danno è anche necessario che il debitore sia in malafede, ovvero consapevole del pregiudizio che l’atto arreca alle ragioni dei creditori. Qualora l’atto sia stato compiuto in epoca anteriore all’insorgenza del debito, è altresì necessaria la dolosa partecipazione dei terzi alla realizzazione dell’atto in questione[27].
La gratuità del medesimo, invece, semplifica notevolmente la prova dell’elemento soggettivo determinando l’irrilevanza della malafede dei terzi beneficiari.
Per consolidato orientamento giurisprudenziale, l’indagine in punto di onerosità o gratuità deve essere parametrata con riferimento alla posizione dei beneficiari: sarà gratuito l’atto con il quale il disponente assoggetta determinati beni al trust con finalità liberali nei confronti dei beneficiari, mentre avrà certamente natura onerosa l’atto con il quale i beni sono destinati all’adempimento di un’obbligazione, e quindi gravati da pesi[28].
A corroborare l’analisi teorico-dogmatica in questione soccorrono i principi elaborati dalla giurisprudenza con riguardo al fondo patrimoniale[29]. In particolare, la giurisprudenza espressasi sul punto sul punto[30], ha stabilito che: “È revocabile, in favore del creditore, il fondo patrimoniale costituito dal socio accomandatario di una S.a.s., in data posteriore all’assunzione del debito, sol che ricorrano le condizioni di cui all’art.2901, comma 1, n.1 cc (c.d. “scientia damni”).
Recentemente in dottrina, si è osservato, con riferimento alla revoca dell’atto di trasferimento dei beni al trust da parte del disponente, che la natura gratuita od onerosa dell’atto dovrà essere individuata in relazione allo scopo del trust. Se il negozio giuridico ha come finalità il soddisfacimento dei creditori del disponente e, dunque, l’estinzione dei debiti di quest’ultimo, l’atto di trasferimento potrà essere considerato oneroso perché destinato a soddisfare un’obbligazione del disponente. Diversamente, ove il trasferimento sia determinato da ragioni di liberalità, dovrà ritenersi di essere di fronte ad un atto a titolo gratuito. Tale conclusione si fonda sul rilievo che la natura dell’atto di trasferimento debba essere indagata al di fuori della causa del negozio di trasferimento stesso. Se si limita l’indagine a tale più ridotto punto di osservazione, occorre soltanto verificare se a fronte della prestazione del solvens vi siano prestazioni corrispondenti in suo favore. È allora ragionevole concludere che l’estinzione dei debiti del solvens stesso non rappresenta un corrispettivo immediato dell’atto di trasferimento ed è piuttosto legata alla realizzazione dello scopo del trust, sì che il negozio di regola sarà atto a titolo gratuito[31].
La corretta qualifica della natura giuridica dell’atto in questione in termini di onerosità o gratuità ha inoltre importanti ricadute processuali in termini di litisconsorzio necessario, in quanto la mancata vocatio in ius potrebbe determinare la lesione del diritto al contraddittorio dei terzi beneficiari del trust. Sul punto, pur con voci di segno contrario, la giurisprudenza ha raggiunto importanti approdi. La tematica si è posta recentemente all’attenzione della Suprema Corte in merito alla necessità, allorquando sia in evidenza una ipotesi di trust a titolo oneroso, di considerare i terzi beneficiari come litisconsorti necessari nell’ambito del processo. Occorre premettere come la Cassazione, nel risolvere il quesito sottoposto alla sua attenzione, riprenda a grandi linee il ragionamento anzidetto in merito ai criteri cui oggi pacificamente è rimessa l’analisi della gratuità o onerosità delle ipotesi di separazione patrimoniale.
Il litisconsorzio necessario, com’è noto, impone la partecipazione di più soggetti al giudizio instaurato contro uno di essi, attesa la comunanza del rapporto giuridico in questione, nonché la necessità di opporre alle parti interessate gli effetti della sentenza, in special modo quando quest’ultima sia di carattere esecutivo. L’assenza di una delle parti “necessarie” condiziona il potere del giudice di pronunciarsi sul merito, pertanto, una sentenza emessa in assenza del codestinatario è priva di effetto, non solo nei suoi confronti, ma verso tutte le parti coinvolte.
L’ampiezza dell’azione revocatoria va parametrata in merito alla peculiarità del trust la cui onerosità necessità della prova del consilium fraudis, ossia la consapevolezza da parte del terzo del pregiudizio arrecato al creditore; poiché, come si è detto, ai fini dell’onerosità occorre guardare al fascio di interessi che involge i rapporti tra disponente e beneficiario, la Cassazione ha concluso nel senso di ritenere che, in presenza di trust qualificato come oneroso, lo stato soggettivo dei terzi beneficiari, elevandosi a elemento costitutivo della fattispecie impone di qualificarli come litisconsorti necessari. Di contro, qualora il trust sia a titolo gratuito, la giurisprudenza ha ulteriormente precisato come, nella diversa ipotesi in cui in favore dei beneficiari ai quali siano attribuite dall’atto istitutivo soltanto facoltà, non connotate da realità, assoggettate a valutazioni discrezionali del trustee, debba escludersi che gli stessi possano essere considerati litisconsorti necessari[32]. Con maggiore impegno esplicativo, il mero interesse che i terzi beneficiari vantano rispetto alla corretta gestione dei beni conferiti, non determina l’insorgenza nella loro sfera giuridica di una posizione avente rilievo dal punto di vista processuale al tal punto da imporre la legittimazione passiva dei medesimi. Si tratta, peraltro, di una conclusione coerente con l’ambito di operatività dell’azione revocatoria che tocca non l’istituzione del trust, operazione questa pienamente legittima e priva di effetto lesivo ex se, ma l’atto di conferimento con cui i beni traslano dalla sfera del disponente a quella del trustee. Quest’ultimo diviene titolare di un patrimonio distinto e separato ed è nella sua sfera giuridica che si verifica quell’effetto segregativo che determina nocumento alle ragioni creditorie, a cui si rivolge il raggio operativo della dichiarazione di inefficacia e che rende il trustee unico soggetto di riferimento nei confronti dei terzi.
Un altro aspetto problematico dell’azione revocatoria in generale, emerso nel caso in commento, è costituito dalla necessità o meno della sussistenza in capo all’attore di una posizione creditoria già dotata dei requisiti di certezza. La tematica è legata a filo doppio anche all’ipotesi in cui il credito presupposto sia litigioso, argomento sul quale vi era tradizionalmente un contrasto in ordine alla sussistenza o meno del rapporto di pregiudizialità necessaria, tale da comportare la sospensione ai sensi dell’art. 295 c.p.c., tra il giudizio promosso con l’azione revocatoria di cui all’art. 2901 c.c. e quello avente ad oggetto l’accertamento del credito invocato ai fini della tutela revocatoria.
Si tratta di un punto sul quale la giurisprudenza e la dottrina hanno avuto modo di confrontarsi in passato in quanto, secondo un indirizzo dottrinario, poco seguito dalla giurisprudenza, la strumentalità dell’azione revocatoria alla tutela delle posizione creditizie, deve per forza di cose presupporre l’esistenza di un credito liquido ed esigibile quale presupposto indefettibile per l’esperibilità del rimedio.
La giurisprudenza maggioritaria ha tuttavia confutato tale assunto. La Cassazione, infatti, ha avuto modo di precisare come dall’articolo 2901c.c. siano ricavabili indicazioni in senso contrario. Ciò si evince in particolar modo in sede di esegesi del secondo comma, il quale ammette pacificamente la revocazione di un atto che il debitore ha posto in una fase addirittura cronologicamente anteriore al sorgere del credito, richiedendo in tale ipotesi la sola preventiva finalizzazione lesiva dell’atto medesimo. Si può quindi affermare con precisione, il chiaro intento del legislatore il quale ancora all’insorgenza della posizione creditoria e non al suo accertamento, l’esperibilità del rimedio di cui all’articolo 2901 c.c.
L’impianto teorico anzidetto ha, inoltre, consentito alla Suprema Corte di recidere quel legame processuale in termini di pregiudizialità logica necessaria tra azione revocatoria e accertamento del credito paventato da un indirizzo minoritario, dovendosi inoltre escludere l’eventualità di un conflitto di giudicati tra la sentenza che, a tutela del credito contestato, dichiari inefficace l’atto di disposizione e la sentenza negativa sull’esistenza del credito[33].
Le medesime considerazioni in punto di fatto e diritto offrono lo spunto per approfondire la tematica inerente alle funzionalità del trust costituito all’interno di una società in accomandita semplice.
Quest’ultima appartiene al novero della società di persone e si caratterizza per la presenza di due categorie di soci: gli accomandatari, illimitatamente responsabili, cui è affidata l’amministrazione della società, e gli accomandanti, limitatamente responsabili ed, in linea di principio, esclusi dalla gestione dell’impresa. La diversa posizione in ordine alla gestione dell’impresa ed alla responsabilità per le obbligazioni sociali è il motivo ispiratore che talvolta induce il socio accomandatario, nella fase in cui l’impresa versa già in difficoltà finanziaria, a conferire nel trust molteplici beni personali, autonominandosi gestore e quindi trustee e istituendo come beneficiari direttamente i propri familiari, già soci accomandanti della medesima società.
Si tratta di un atto gestorio che, attuato in una fase di conclamata difficoltà finanziaria, non solo è sussumibile, unitamente ad altri, nell’alveo degli atti di mala gestio, ma integra ulteriormente uno degli elementi costitutivi del fumus del credito, su cui si è basata l’azione revocatoria intentata dalla curatela fallimentare.
Non da ultimo, si può rilevare come non emerga dalla complessiva operazione negoziale attuata dal socio accomandatario-disponente, diverso intento se non quello di diminuire il proprio assetto patrimoniale sottraendo taluni beni e quote societarie a garanzia delle posizioni creditizie.
Gli assunti in questione trovano pieno riscontro volgendo lo sguardo alle plurime e più recenti prese di posizione della giurisprudenza, anche di legittimità.
I tribunali con sempre maggiore frequenza accolgono l’azione revocatoria intentata dalla curatela fallimentare, non essendo di ostacolo il fatto che il credito vantato dalla parte attrice sia oggetto di accertamento in un separato giudizio intentato per far rilevare la responsabilità da fatto illecito per gli atti di mala gestio tenuti dall’amministratore della società lesivi della intera compagine societaria.
Ciò si lega al fatto che, in punto di prova dell’eventus damni, non occorre dimostrare l’effettiva portata lesiva dell’atto, ma anche la semplice potenzialità degli stessi di rendere più difficoltosa l’escussione patrimoniale del debitore a causa della incapienza del medesimo.
4. CONCLUSIONI.
Lo stato della giurisprudenza e dell’indagine dottrinale dimostra che il trust è divenuto oramai uno strumento a disposizione dell’autonomia privata, soggetto alle garanzie ordinamentali, e ancora al centro di un annoso dibattito che si agita in dottrina e in giurisprudenza.
Il crescente impiego del trust si giustifica ponendo l’accento sulla natura proteiforme del medesimo che permette di plasmarne la struttura, rendendolo agile strumento negoziale per la soddisfazione di molteplici interessi.
Questo impone all’operatore del diritto un maggiore sforzo ermeneutico al fine di stabilire se, l’effetto segregativo che gli è proprio, collida con i principi fondamentali dell’’ordinamento tra cui rientra, come si è detto, la garanzia patrimoniale generica.
La giurisprudenza dal canto suo, consapevole delle possibili finalità elusive cui il trust può prestarsi, ha – con numerose pronunce – circoscritto il suo operato, dettandone uno statuto di operatività.
Si tratta di un compito suppletivo che rimedia all’assenza di una compiuta normazione ad opera del legislatore, tanto auspicata dalla dottrina. Le maggiori criticità hanno interessato l’utilizzo del trust in ambito societario nel quale, accanto alla piena autonomia negoziale del disponente, si affianca la necessità di tutelare le ragioni dei creditori societari, pregiudicati dalla costituzione di patrimoni sottratti alle azioni esecutive.
In tali ipotesi la giurisprudenza, mostrando una certa sensibilità giuridica, ha saputo sapientemente bilanciare i contrapposti interessi, operazione ermeneutica tutt’altro che facile come dimostrato dalle numerose disquisizioni che hanno agitato il panorama civilistico con riguardo all’ammissibilità del trust liquidatorio. La tematica costituisce l’ennesimo indice della tensione tra la prudenza con cui la giurisprudenza valuta il ricorso al trust nella materia della crisi di impresa e una prassi che invece, insinuandosi negli spazi offerti da un’elaborazione teorica non ancora matura, mostra un crescente entusiasmo nei confronti di questo strumento. La Cassazione Civile con un’importantissima pronuncia a sezione semplici[34] ha recisamente negato l’ammissibilità di un trust liquidatorio ad opera di una società in stato di grave dissesto economico-finanziario. In realtà è proprio l’ampiezza dello schema negoziale in questione che impone una più attenta valutazione dello scopo pratico perseguito dal medesimo. Secondo la Suprema Corte, dunque, bisogna sempre guardare alla causa concreta del regolamento in trust e – ove essa sia quella di segregare tutti i beni dell’impresa, a scapito di forme pubblicistiche quale il fallimento, che detta dettagliate procedure e requisiti a tutela dei creditori del disponente – l’ordinamento non può accordarvi tutela. Il trust prosegue la sentenza “sottraendo il patrimonio o l’azienda al suo titolare ed impedendo una liquidazione vigilata, in quanto rimette per intero la liquidazione dell’attivo alla discrezionalità del trustee determina l’effetto, non accettabile per il nostro ordinamento, di sottrarre il patrimonio del debitore ai procedimenti pubblicistici di gestione delle crisi d’impresa, ed all’attivo fallimentare della società settlor il patrimonio stesso”.
Più permissiva sembra la Corte in merito al trust protettivo o endo-concorsuale concluso quale alternativa alle misure concordate di risoluzione della crisi d’impresa, e la cui causa concreta è da individuarsi nella agevolazione della liquidazione patrimoniale della società in stato di decozione, pagando il passivo e ripartendo l’eventuale avanzo. Sottolinea la Corte come tale ipotesi debba essere assoggettata ad un penetrante controllo causale e la sua legittimità potrà essere ammessa a condizione che la procedura liquidatoria si svolga sempre sotto il controllo del ceto creditorio o del giudice.
Soltanto in tale ipotesi, l’operazione negoziale anzidetta presenterebbe struttura analoga alle ordinarie procedure di liquidazione, disinnescando la clausola che ex art. 15 della Convenzione dell’Aja, imporrebbe di disconoscerne l’attuazione qualora violi diritti fondamentali dei creditori.
La norma in analisi costituisce l’addentellato normativo che permette, come nel caso oggetto della sentenza in commento, di fare salva l’applicazione delle azioni a tutela dei creditori di cui l’azione revocatoria costituisce una delle più valide espressioni.
In conclusione, si può ben dire come il trust attuato in ambito societario con il solo fine elusivo, sia aggredibile anche dalla curatela fallimentare, e non permette di sottrarre poste attive del patrimonio alla garanzia patrimoniale a tutela dei creditori.
Si tratta di una conclusione ormai conclamata nel nostro ordinamento, ancorchè voci unanimi – sia in giurisprudenza così come in dottrina – auspichino un intervento del legislatore che sia funzionale a dare organicità alla materia e sopire alcune perplessità attuative e taluni dubbi ermeneutici che ancora si agitano nel panorama giuridico.
Avv. Aldo Fittante, Professore a contratto in “Diritto della Proprietà Industriale” Università degli Studi di Firenze e in “Diritto della Proprietà Intellettuale” ed “Industrial and Intellectual Property nella Moda” Università LUM Jean Monnet di Bari (Casamassima).
[1] Quanto al suo fondamento non vi è uniformità di vedute: secondo alcuni è da ravvisarsi nella reazione dell’ordinamento contro un atto fraudolento compiuto dal debitore diretto a sottrarre i propri beni alla garanzia del creditore (Bigliazzi Geri – Breccia – Busnelli – Natoli, Diritto civile, Torino, 1992, III, 122; Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Napoli, 1994, 268-485); altri lo individuano nel vincolo di indisponibilità dei propri beni che grava sul debitore, sicché, essendo l’atto dispositivo fin dall’origine inefficace, la sentenza sarebbe di mero accertamento (Nicolò, Azione revocatoria tutela dei diritti, Bologna, 1953, 188). Altri ancora ricercano tale fondamento sul piano processuale, giungendo a ritenere l’azione revocatoria quale anticipazione della successiva azione esecutiva che il creditore può intraprendere contro il terzo acquirente (Bianca, Diritto civile, Milano, 1994, V, 436).
[2] Si tratta di una conclusione oggi pacificamente accolta dalla dominate dottrina, invero la garanzia patrimoniale generica non rappresenta che uno status caratterizzante l’intero patrimonio del soggetto passivo di rapporti obbligatori, che determina una soggezione del medesimo agli atti conservativi e cautelari promossi dalla compagine creditoria.
In passato a ben vedere taluni in dottrina avevano propugnato l’idea che l’intero patrimonio del debitore fosse gravato da un diritto reale di garanzia generico e indeterminato. Si capisce bene come in tali ipotesi il diritto di sequela, caratteristica propria del diritto in questione avrebbe garantito l’immediata escussione anche presso terzi di qualunque bene fuoriuscito dall’asse patrimoniale.
Tale corrente ermeneutica traeva suggestione e forse era giustificabile dalla collocazione che il codice del 1865 riservava alla responsabilità patrimoniale generica collocata in apertura del titolo dedicato ai privilegi e alle ipoteche, la quale poteva dare adito all’idea del vincolo di indisponibilità dei propri diritti reali).
[3] Cassazione civile sez. un., 23/11/2018, n. 30416: “La sentenza che accoglie la domanda revocatoria, sia essa ordinaria o sia fallimentare, in forza di un diritto potestativo comune, al di là delle differenze esistenti tra le medesime, ma in considerazione dell’elemento soggettivo di comune accertamento da parte del giudice, quantomeno nella forma della scientia decoctionis, ha natura costitutiva, in quanto modifica “ex post” una situazione giuridica preesistente, sia privando di effetti, atti che avevano già conseguito piena efficacia, sia determinando, conseguentemente, la restituzione dei beni o delle somme oggetto di revoca alla funzione di generale garanzia patrimoniale (art. 2740 cod. civ.) ed alla soddisfazione dei creditori di una delle parti dell’atto”.
[4] La Suprema Corte innanzitutto ribadisce che, come la giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato, l’esenzione da revocatoria dell’atto di adempimento di un debito scaduto ex art. 2901 terzo comma c.c.:
– trova ragione nella natura di atto dovuto della prestazione del debitore in mora e, di conseguenza, nell’assenza della consapevolezza e volontarietà dell’atto di disposizione patrimoniale, richiesta in linea generale quale elemento soggettivo o psicologico della revoca;
– non è impedita dalla disparità di trattamento che l’atto può determinare, atteso che l’azione revocatoria ordinaria, a differenza di quella fallimentare, non si pone l’obiettivo di tutelare la par condicio creditorum;
– sebbene normativamente prevista soltanto per l’atto di adempimento in sé, va estesa anche all’ipotesi di alienazione di un bene eseguita per reperire la provvista necessaria a soddisfare i creditori, a condizione che tale alienazione rappresenti il solo mezzo per tacitare questi ultimi e si ponga in rapporto di strumentalità necessaria con l’atto di adempimento; fermo restando, anche in questo caso, la necessità di un rapporto strumentale, anche quando la somma realizzata con l’atto di alienazione sia maggiore di quella impiegata nel pagamento dei debiti. In questo caso la revoca potrà eventualmente colpire solo gli atti con i quali il debitore abbia disposto della somma residua.
[5] La teoria indennitaria suppone che il principio su cui si basa la revocatoria fallimentare coincide con quello della revocatoria ordinaria, in quanto entrambe hanno l’obiettivo di riparare al pregiudizio arrecato dal fallito nei confronti dei creditori. La revocatoria fallimentare, secondo questa teoria, ha lo scopo di colpire tutti quegli atti che hanno arrecato danno al patrimonio fallimentare con il fine di sottrarre ai creditori risorse su cui avrebbero potuto soddisfare almeno in parte i crediti vantati verso il soggetto dichiarato fallito. La teoria dualistica, o distributiva, parte da un principio abbastanza diverso, infatti, secondo i propri sostenitori la revocatoria fallimentare è priva di pregiudizio ed ha come unico scopo quello di realizzare un’equa ripartizione delle perdite, quindi affinché si possa promuovere non è indispensabile che uno dei creditori abbia subito un danno. Seguendo questo filone interpretativo, si potrebbe, quindi, affermare che la revocatoria fallimentare si configura come una semplice sanzione di inefficacia ed in tal modo andrebbe a colpire tutti quegli atti posti in essere dal fallito in un determinato arco temporale che precede la dichiarazione di fallimento, andando così a colpire anche i cosiddetti atti normali di gestione. La teoria indennitaria diversamente da quanto appena detto, non potrebbe colpire gli atti normali di gestione, in quanto questi sono privi del requisito del danno, infatti lo scopo unicamente perseguito, da questo filone teorico, è quello di evitare che vi sia la lesione della par condicio creditorum; secondo questa teoria infatti, il pregiudizio viene ricavato in via presuntiva, ossia, dallo stato di insolvenza in cui versa il debitore nel momento in cui ha concluso l’atto e non dagli effetti provocati dal negozio che si conclude. Si viene in questo modo a creare un’equivalenza sul piano normativo tra stato di insolvenza ed esistenza del pregiudizio ed in forza di questa equivalenza l’azione revocatoria viene a gravitare sul primo.
[6] Di fatto l’eventus damni sarebbe irrilevante o, nella migliore delle ipotesi, esistente in re ipsa nelle fattispecie descritte dall’art. 67 l.fall. secondo una presunzione assoluta di legge iuris et de iure avverso la quale non è ammessa prova contraria (Cass. 13.9.1997, n. 9075; Cass. 20.9.1991, n. 9853; Cass. 14.11.2003, n. 17189; Cass. 12.1.2001, n.403). Anzi, secondo tale impostazione, l’azione potrebbe colpire anche atti di per sé non dannosi considerato che la ratio è quella di “punire” chi nel periodo sospetto ha contrattato con il fallito pur conoscendo lo stato di insolvenza in cui versava (Maffei Alberti, Il danno nella revocatoria, Padova, 1970 e La funzione della revocatoria fallimentare, in Giurisprudenza Commerciale 1976, 362 e seguenti). Da questo punto di vista l’istituto di cui all’art. 67 l.fall. – colpendo tutti gli atti compiuti nel periodo sospetto – mira a disincentivare i creditori dal ricevere atti di disposizione patrimoniale da parte del soggetto in stato di dissesto così da espellere l’impresa “decotta” dal mercato o spingerla, se ancora possibile, verso gli strumenti “istituzionali” previsti dall’ordinamento per l’emersione della crisi (Trib. Monza, 20.11.2001) e la trattazione dell’insolvenza.
[7] L’art. 67 disciplina in modo diverso gli atti a titolo oneroso in relazione al corrispettivo. Se fra le prestazioni vi è squilibrio in danno del debitore poi fallito il carattere pregiudizievole dell’atto è maggiormente accentuato; l’atto è revocabile se compiuto nell’anno anteriore; l’anormalità dell’atto fonda poi una presunzione legale di conoscenza dello stato di insolvenza e incombe quindi al terzo l’onere di provare l‘inscientia decotionis (art. 67 comma 1 n.1). Se viceversa tra le prestazioni non vi è squilibrio in danno del fallito, l’atto è revocabile se compiuto nei sei mesi anteriori e incombe al curatore l’onere della prova della scientia decotionis (art. 67 comma 2). Per determinare lo squilibrio con la riforma si è introdotto un termine numerico: sorpasso di oltre un quarto. Resta ad ogni modo l’incognita del giusto prezzo, ordinariamente affidato ad un consulente tecnico d’ufficio, accertamento che presenta spesso, in particolare per i beni che non hanno un ampio mercato, margini di opinabilità.
[8] La giurisprudenza ritiene pacificamente che le notizie di stampa possano costituire elementi validi su cui ancorare la prova che il terzo conoscesse lo stato di insolvenza. Per le notizie di stampa vi è da accertare che le notizie siano di carattere nazionale, tenuto conto che un articolo uscito in un giornale locale non può certo essere conosciuto da una azienda che ha sede in altra regione. La conoscenza dello stato di insolvenza non è desumibile solo da notizie di stampa, sia perché l’informazione giornalistica non assurge a fonte di conoscenza legale, in quanto non è dotata di indiscutibile attendibilità, sia perché il terzo acquirente non è tenuto a leggere i giornali. In ogni caso, ai fini della revocatoria fallimentare, la conoscenza dello stato di insolvenza è desumibile da notizie di stampa solo allorché l’accertamento della loro sussistenza si accompagni al riscontro della esistenza anche di ulteriori segni esteriori.
[9] Alcuni sintomi obiettivi di insolvenza possono essere così classificati: protesti; procedimenti esecutivi immobiliari; iscrizioni di ipoteche giudiziali; notizie di stampa sulla crisi dell’impresa; risultanze dai bilanci. Altri sintomi invece possono essere percepiti direttamente dal convenuto in revocatoria: protesto di assegni per la banca trattaria o per il presentatore di titoli; reiterate inadempienze. Altre volte invece la conoscenza dello stato di insolvenza è desumibile dal comportamento del convenuto in revocatoria: revoca di fidi; mutamento delle condizioni di pagamento.
[10] Tribunale Roma, 02/10/2018, n. 18602: “In tema di revocatoria fallimentare, l’accertamento giudiziale della scientia decotionis può fondarsi anche su presunzioni semplici quali quella riferita al dato per il quale, secondo l’“id quod plerumque accidit”, una notevole parte della popolazione (ivi inclusa quella che dirige o collabora all’attività d’impresa) sia solita consultare la stampa ed informarsi di quanto essa pubblica, comprese le notizie relative allo stato di dissesto della società poi assoggettata a procedura concorsuale. La notizie di stampa, pertanto, possono costituire uno degli elementi in fatto che, coordinati con ulteriori aventi ognuno relativa significanza dimostrativa e nell’ambito del procedimento conoscitivo dettagliato dall’art. 2729 c.c., possono condurre al risultato finale affermativo della sussistenza della consapevolezza della condizione di insolvenza”.
[11] Da ultimo sul punto si segnala Cassazione civile sez. VI, 04/07/2018, n.17544: “Nel giudizio di revocazione ordinaria di un atto di disposizione patrimoniale compiuto dal debitore, qualora sopravvenga il fallimento di questi, il curatore può subentrare nell’azione in forza della legittimazione accordatagli dall’art. 66 l.fall., accettando la causa nello stato in cui si trova, sicché trattandosi di azione che il curatore trova nella massa fallimentare e si identifica con quella che i creditori avrebbero potuto esperire prima del fallimento, per un verso, la prescrizione decorre anche nei confronti della curatela, ai sensi dell’art. 2903 c.c., dalla data dell’atto impugnato, per l’altro, l’interruzione della prescrizione ad opera di uno dei creditori, cui sia subentrato il curatore ex art. 66 cit., giova alla massa fallimentare”.
[12] Cass. 16490/2012: “L’acquirente di un bene immobile che sia stato convenuto in revocatoria ai sensi dell’art. 67 della legge fallimentare, qualora intenda opporre al curatore del fallimento del venditore la simulazione relativa del prezzo della compravendita, ha l’onere di provare l’esistenza del patto aggiunto e contrario al contratto, anteriore o contestuale allo stesso, attraverso documenti opponibili al curatore ai sensi dell’art. 2704 c.c., che non solo dimostrino l’avvenuto pagamento, ma che consentano anche, per il loro contenuto, di ricollegare l’atto solutorio al negozio di cui costituirebbe esecuzione. In tale prospettiva, se è indubbio che la prova del collegamento negoziale può essere fornita anche in via logica, ciò non toglie che ciascuno dei documenti tra loro ricollegabili debba essere munito, secondo il regime probatorio suo proprio, di data certa anteriore al fallimento”.
[13] Cassazione Civile, Sez. VI, 14 Novembre 2017, n. 26927 (Est. Loredana Nazzicone).
[14] Diffusamente, e di recente, Baldini, Proprietà fiduciaria, mandato e trust, in Clarizia, Proprietà e diritti reali, UTET giuridica, 2016, in particolare p. 348 ss..; Bartoli, Muritano, Trust, negozi di destinazione e legge fallimentare, Torino, 2017; Bassetti, Il trust:criticità, correzioni, sviluppi, Torino, 2017; Panzani, Il trust nell’esperienza giuridica italiana: il punto di vista della giurisprudenza e degli operatori, Giur. merito, fasc. 12, 2010, pag. 2934B. Si vedano anche Cavallini, Trust e procedure concorsuali, in Riv. soc., 2011, 6, 1093; De Nova, Trust: negozio istitutivo e negozi dispositivi; Di Maio, Il trust e la disciplina fallimentare: eccessi di consenso, in Dir. fall., 2009, 6, 498; Di Mundo, “Trust interno” istituito da società insolvente in alternativa alla liquidazione fallimentare, in Fall., 2010, Gli Speciali, 6; Fimmano, Trust e diritto delle imprese in crisi, in Riv. notariato, 2011, 3, 511; ID., Trust e procedure concorsuali, in Fall., 2010, Gli Speciali, 33; Fiorani, Trust liquidatorio e tutela dei creditori, in Riv. dir. privato, 2010, 3, 127; Galletti, Il trust e le procedure concorsuali: una convivenza subito difficile, in Giur. comm., 2005, I, 904; Galluzzo, Validità di un trust liquidatorio istituito da una società in stato di decozione, in Corriere giuridico, 2010, 4, 531; Greco, Il concordato stragiudiziale attestato realizzato da un trust, in Ilfallimentarista.it, 22.07.2013; ID., Il trust quale strumento di soluzione e di prevenzione della crisi d’impresa nella riforma delle procedure concorsuali, in Trusts, 2007, 212; Luoni, Note in tema di liquidazione, cancellazione di società e di trust liquidatorio, in Giur. it., 2012, 11, 2294; Rovelli, Il ruolo del trust nella composizione negoziale dell’insolvenza di cui all’art. 182-bis l. fall., in Trusts, 2007, 404; Russo, L’uso del trust nella composizione della crisi d’impresa, in Ilfallimentarista.it, 12.11.2013; Schiano Di Pepe, Trust di protezione patrimoniale e fallimento, in Trusts, 2004, 215; Spolaore, “Trust” con funzione liquidatoria e valutazione di meritevolezza, in Banca, borsa e tit. cred., 2013, 2, 170; Tucci, Trust, concorso dei creditori e azione revocatoria, in Trusts, 2003, 33; Zanchi, Diritto e pratica dei trusts, Torino, 2016; Id.;In tema di trust liquidatorio, in Giur. it., 2011, 12, 2557.
Sul tema, più in generale, con riferimento alla definizione di trust adottata dalla Convenzione, si è sottolineato in dottrina che l’art. 2 indica qual è il contenuto minimo necessario e sufficiente per riconoscere un istituto come trust, e si è parlato in proposito di trust amorfo, ovvero non rigorosamente connotato da tutti gli elementi tradizionalmente richiesti nei paesi di common law (Lupoi, I trusts in Italia: alcuni punti fermi, in Riv. dott. commercialisti, 1997, 591; nonché in Trusts, 2ª ed., Milano, 2001, 491-518, Rovelli, Diretta applicabilità della convenzione dell’Aja e l’ammissibilità nell’ordinamento italiano dei «trust interni», in Nuovo dir. soc., 2009, 12, 11).
[15] Art. 15 “La Convenzione non ostacolerà l’applicazione delle disposizioni di legge previste dalle regole di conflitto del foro, allorchè non si possa derogare a dette disposizioni mediante una manifestazione della volontà, in particolare nelle seguenti materie: a) la protezione di minori e di incapaci; b) gli effetti personali e patrimoniali del matrimonio; c) i testamenti e la devoluzione dei beni successori, in particolare la legittima; d) il trasferimento di proprietà e le garanzie reali; e) la protezione di creditori in casi di insolvibilità; f) la protezione, per altri motivi, dei terzi che agiscono in buona fede. Qualora le disposizioni del precedente paragrafo siano di ostacolo al riconoscimento del trust, il giudice cercherà di realizzare gli obiettivi del trust con altri mezzi giuridici”.
[16] Fimmano, Trust e diritto delle imprese in crisi, cit.; in giurisprudenza Trib. Bologna 16.6.2003, in Trusts, 2003, 580.
[17] Tribunale di Udine, 28.2.2015, confermata da Corte d’Appello di Trieste, 29.7.2016, in Bartoli, Muritano, Trust, negozi di destinazione e legge fallimentare.
[18] Cassazione sez. III n. 9637/2018.
[19] Cassazione civile, sez. III, 19/04/2018, n. 9637 in Guida al diritto 2018, 26, 46 (nota di: FIORINI): “Non è necessario che il giudice provveda di volta in volta a valutare se il singolo negozio istituto di trust risponda al giudizio di meritevolezza previsto dall’articolo 1322 del c.c, poiché la valutazione (astratta) della meritevolezza è stata compiuta, una volta per tutte, dal legislatore con la legge 16 ottobre 1989 n. 364, che ha ratificato e dato esecuzione in Italia alla Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985”.
[20] Si veda (cfr. Cass. n. 28363/2011; Cass. n. 3735/15; Cass. n. 3886/15; Cass. n. 5322/2015).
[21] Si tratta di una conclusione non priva di prese di posizione in senso contrario. Si segnala Corte di Cassazione con ordinanza 25.2.2016 n. 3886: La Cassazione, con un ragionamento non privo di incoerenze, statuendo che “il regolamento realizzato benché sia denominato trust, non ne ha la fisionomia: ne manca, difatti, uno dei tratti tipologicamente caratteristici, ossia il trasferimento a terzi da parte del settlor dei beni costituiti in trust” non ha esitato a porsi in esplicito contrasto con le leggi straniere che disciplinano il trust e ne ammettono pacificamente l’autodichiarazione e con l’ordinamento italiano che ammette, come noto, una pluralità di vincoli auto-istituiti si pensi, ad esempio, al vincolo di cui all’art. 2645 ter del codice civile.
[22] Maggiori perplessità in dottrina ha suscitato il trust auto-destinato nel quale il soggetto beneficiario e il soggetto proprietario del (ed, eventualmente, attuatore del vincolo sul) bene vincolato sono la medesima persona. Si veda sul punto Salvatore Pepe: Il vincolo di destinazione in funzione successoria in Rivista del Notariato, fasc. 6, 1 dicembre 2017, pag. 1115: “si dice unanimemente che il vincolo sarebbe inammissibile (nullo per vizio di causa, specificamente) per varie ragioni: a) poiché lo statuto proprietario è un maius che comprende già il minus, costituito dalle facoltà (limitate) che, per effetto del vincolo, il beneficiario ha (il vincolo dunque sarebbe quanto meno senza causa “in concreto”); b) visto che il proprietario già può trarre tutte le utilità possibili dal bene, non si comprende quale possa essere la funzione di tale atto, se non soltanto quella di limitare soltanto la responsabilità del debitore, con un chiaro intento frodatorio (art. 1344 c.c.) rispetto al principio degli artt. 2740 e 2741, essendo inutile “il destinare per il destinare”; c) ancora — anzi, a maggior ragione — se si aderisce alla tesi del vincolo con effetti solo obbligatori, si concluderà per la inammissibilità della sussistenza di un obbligo verso se stessi”.
[23] Sui rimedi a tutela delle ragioni dei creditori del destinante si sofferma F. Roselli, Atti di destinazione del patrimonio e tutela del creditore nell’art. 2645 ter c.c., in G. Doria (a cura di), Le nuove forme di organizzazione del patrimonio, cit., p. 89 ss., spec. p. 101 ss. . B. Mastropietro, Destinazione di beni ad uno scopo e rapporti gestori, cit., p. 124 ss..
[24] Diffusamente, Gallarati, La crisi del debitore «civile» e «commerciale» tra accordi di ristrutturazione e trust, in Contr. impr., 2013, 104, e, in particolare, alle pagine 125-132.
Preme anche ricordare le pronunce per le quali, nella differente fattispecie del trust con finalità liquidatorie, e quindi “para-concorsuali”, si sia consolidata una interpretazione nel senso della nullità ab origine dell’atto istitutivo di trust laddove sussista l’insolvenza del disponente ed il negozio sia finalizzato all’elusione delle regole imperative che presiedono alla liquidazione concorsuale, in violazione degli articoli 1344 o 1418 del codice civile nonché 13 e 15, lettera e), della Convenzione de L’Aia.
In tal senso, Cass. Civ., 9.5.2014, n. 10105, Ilfallimentarista.it 29.10.2014 (nota di Armeli); Ilsocietario.it 29.10.2014 (nota di Leuzzi), Banca Borsa Titoli di Credito 2016, 3, II, 251 (nota di Felicetti) e, nel merito, App. Milano, 29.10.2009, la quale chiude una controversia in cui sono intervenute più pronunce (Trib. Milano, 16.6.2009, con nota di Di Maio, Il trust e la disciplina fallimentare: eccessi di consenso, in Dir. fall., 2009, 498; con nota di Galluzzo, Validità di un trust liquidatorio istituito da una società in stato di decozione, in Corr. giur., 2010, 527; con nota di Pirruccio, La segregazione dell’intero patrimonio aziendale nel trust non consente il normale svolgimento della procedura concorsuale in danno alla massa dei creditori, in Giur. merito, 2010, 1593; Trib. Milano, 17.7.2009 che conferma il precedente ed è scaricabile da www.ilcaso.it; e Trib. Milano 22.10.2009, in Riv dir. priv., 2010, con nota di Fiorani, Trust liquidatorio e tutela dei creditori, in Riv. dir. priv., 2010, 127.) In tema devono essere altresì menzionati Trib. Milano, 29.10.2010, in Trusts e att. fiduc., 2011, 146 il quale ritiene che la nullità debba essere ricondotta all’articolo 1418 c.c.; e Trib. Mantova, 18.4.2011, scaricabile da www.ilcaso.it, secondo cui si determinerebbe una violazione dell’articolo 15, lettera e) della Convenzione dell’Aja. Si veda inoltre il più recente Trib. Napoli, 2.10.2013, scaricabile da www.ilcaso.it. In dottrina, Raganella-Regni, Il trust liquidatorio nella disciplina concorsuale, in Trusts e att. fiduc., 2009, 598; Tedioli, Trust con funzione liquidatoria e successivo Fallimento dell’impresa, in Trusts e att. fiduc., 2010, 494; Dimundo, «Trust interno» istituito da società insolvente in alternativa alla liquidazione fallimentare, in Fallimento, 2010, S, 3.
Nel senso, però, che anche questi profili riconducano alla mera revocatoria degli atti di disposizione in concreto pregiudizievoli, in quanto l’atto istitutivo del rapporto altro non è che l’atto con cui si dà origine al trust e si definisce – con regole di organizzazione – il regolamento dell’assetto di interessi, diritti e obblighi degli attori in gioco, oltre al programma gestorio di cui il trustee è investito, e, quindi, che tale atto, avente causa nella finalità del trust, non incide sul patrimonio di chi lo sottoscrive ed ha una funzione molto simile all’atto costitutivo ed allo statuto di una società Gallarati, Trust liquidatorio di società di capitali, in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 3, 2015, 619, in nota a sentenza Tribunale di Cremona, 08.10.2013 (altresì annotata da Ranucci Roberto, “I difficili rapporti tra il Trust interno e le procedure concorsuali), nonché Tribunale di Urbino, 11 novembre 2011, in Trusts e att. fiduc., 2012, 401.
[25] Soccorre la giurisprudenza per la quale l’atto di costituzione del fondo patrimoniale (art. 167 c. c.) compiuto dal fallito nel biennio anteriore al fallimento, rientrando nel genus degli atti a titolo gratuito, è soggetto ad azione revocatoria da parte del curatore del fallimento, ex art. 64 l. f., atteso che esso, creando un patrimonio di scopo che resta insensibile alla dichiarazione di fallimento ed impedendo che i beni compresi in tale patrimonio siano inclusi nella massa attiva, incide riduttivamente sulla garanzia derivante alla generalità dei creditori dall’art. 2740 c.c. (Trib. Milano, sez. II, 12.6.2006, n. 5218; Cass., 23.3.2005, 6267; Cass., 8.9. 2004, n. 18065)
[26] Tribunale di Palmi, con sentenza del 14 novembre 2014, n. 885: “In caso di azione revocatoria, ex art. 2901 del codice civile, avente ad oggetto il conferimento di beni in trust, la c.d. “scientia damni” in capo al terzo acquirente è desumibile dal fatto che i beneficiari siano i più stretti familiari del debitore o quest’ultimo nella qualità di trustee”.
[27] Cassazione civile, 04 dicembre 2014, n.25658, sez. I con nota di Gianluca Tarantino – Avvocato e dottore di ricerca in diritto dell’economia in Diritto & Giustizia, fasc.1, 2014, pag. 74: “Se l’atto dispositivo è anteriore al credito rivendicato, è necessaria la prova della dolosa preordinazione dell’alienante”.
[28] Cass. civile sez. III 29.05.2018 n. 13388 la quale osserva che ai fini della gratuità e dell’’onerosità del trust non occorre avere riguardo ai rapporti tra disponente e trustee ma tra disponente e beneficiario, ciò in quanto la costituzione del trust e l’effetto segregativo che ne deriva è funzionale ad evitare l’aggressione dei creditori ai fini di realizzare l’interesse cui è volta la destinazione patrimoniale ovvero quello dei beneficiari. La pronuncia rileva per l’ulteriore aspetto di taglio dogmatico in quanto confuta la posizione emersa in dottrina secondo la quale, la previsione di una remunerazione percepita dal trustee per l’opera svolta in qualità di amministratore, possa condizionare, nel senso di renderlo oneroso, il negozio giuridico posto in essere. Rileva la Suprema Corte come il trust determini un fascio di rapporti che solo mediatamente involgono la sfera giuridica del trustee nella quale convergono solo temporaneamente i beni oggetto di segregazione con scopo meramente gestorio. L’onerosità dell’’incarico affidatogli, attiene non alle caratteristiche e dunque al rapporto di trust, ma all’eventuale remunerazione del contratto di mandato che vi soggiace. A parere della Corte quindi il giudizio sul carattere oneroso o gratuito dell’’intera operazione negoziale deve rifuggire da giudizi di carattere meramente formale e deve guardare con più ampio respiro alle finalità complessive alla cui realizzazione è diretta. Qualora tra queste non siano rinvenibili finalità solutorie o di garanzia, sarà difficile escluderne la gratuità. In senso conforme: Tarolli Remo Giurisprudenza Commerciale, fasc. 3, 2016, pag. 685 trust, atti di destinazione e contratti fiduciari in genere.
[29] Con riguardo a tale istituto, la giurisprudenza è assolutamente pacifica nel considerare l’attribuzione dei beni al fondo come atto a titolo gratuito, inefficace ai sensi dell’art. 64 l. fall. Si è infatti detto che l’atto di costituzione del fondo patrimoniale (art. 167 c.c.) compiuto dal fallito nel biennio anteriore al fallimento, rientrando nel genus degli atti a titolo gratuito, è soggetto ad azione revocatoria da parte del curatore del fallimento, ex art. 64 l. fall., atteso che esso, creando un patrimonio di scopo che resta insensibile alla dichiarazione di fallimento ed impedendo che i beni compresi in tale patrimonio siano inclusi nella massa attiva, incide riduttivamente sulla garanzia derivante alla generalità dei creditori dall’art. 2740 c.c. Cass. 28 novembre 1990, n. 11449, in Fall., 1991, 365; Cass., sez. I, 25.7.1997, n. 6954, ivi, 1998, 679, nota di Figone, che ha osservato che se l’attribuzione proviene da entrambi i coniugi, di cui uno soltanto fallito, la revoca colpisce soltanto il 50% dell’attribuzione riferibile al fallito. Cass. 8.9.2004, n. 18065, rv. 576858; Cass. 26.3.2003, n. 4457, in In Iure Praesentia, 2003, I, 1774. Cass., sez. I, 2 dicembre 1996, n. 10725, in Fam. e dir., 1997, 169, ha qualificato la costituzione del fondo patrimoniale come atto tipico di liberalità. Più recentemente hanno ribadito l’esperibilità dell’azione ex art. 64 l. fall. Cass. 8.9.2004, n. 18065, in Giust. civ., 2005, I, 997; Cass. 23.3.2005, n. 6267, rv. 580396; Cass. 2.2.2006, n. 2327, rv. 588393. È stato peraltro correttamente precisato da Cass., sez. I, 18.9.1997, n. 9292, in Foro it., 1997, I, 3148, con riferimento però alla revocatoria ordinaria esperita dal curatore ex art. 66 l. fall. che il beneficiario non può addurre come esimente l’eventuale proporzione fra l’atto compiuto in adempimento di un dovere morale e il patrimonio del disponente come invece è previsto per l’azione di inefficacia svolta ai sensi dell’art. 64 l. fall. Anche nel caso di revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c. la giurisprudenza ha ribadito la natura di atto a titolo gratuito della costituzione del fondo. I presupposti per l’utile esperimento dell’azione sono quelli previsti dal codice, sì che nel caso in cui il credito sia sorto successivamente alla costituzione del fondo occorrerà la prova della dolosa preordinazione dell’atto a ledere la garanzia dei creditori. A tale proposito si è affermato con riguardo alla posizione del fideiussore (i cui atti dispositivi sono senz’altro assoggettabili, al pari di quelli del debitore principale, al rimedio de quo), che l’acquisto della qualità di debitore nei confronti del creditore risale al momento della nascita del credito (e non anche a quello della scadenza dell’obbligazione del debitore principale), sì che è a tale momento che occorre far riferimento al fine di stabilire se l’atto pregiudizievole (nella specie, appunto, costituzione di un fondo patrimoniale) sia anteriore o successivo al sorgere del credito, onde predicare, conseguentemente, la necessità o meno della prova della “dolosa preordinazione” (Cass., sez. III, 22.1.1999, n. 591, in Giust. civ., 1999, I, 3380. Conforme con riferimento ad un caso in cui il credito garantito derivava da un’apertura del credito e nel quale l’insorgenza del credito è stata fatta decorrere dall’accreditamento al debitore garantito, Cass. 9.4.2009, n. 8680; Cass., sez. III, 22.1.1999, n. 591, in Giur. it., 2000, 516; Cass. 8.8.2007, n. 17418; Cass. 7.10.2008, n. 24757, in Giust. civ., 2009, I, 1909.
[30] Tribunale di Torre Annunziata, 05.11.2013, che richiama Cass. 2.12.1996 n. 10725.
[31] Trib. Cassino 8.1.2009, in www.ilcaso.it, secondo il quale la mancata previsione di un corrispettivo è indice di gratuità dell’atto di trasferimento dei beni in trust, con la conseguenza che per l’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria è sufficiente la consapevolezza in capo al disponente del pregiudizio arrecato agli interessi dei creditori).
Va tuttavia osservato che le Sezioni Unite Cass., sez. un., 18.3.2010, n. 6538, in (Cass., sez. un., 18.3.2010 n. 6538: in Giur. comm., 2011, 585, con nota di Benedetti, La revocatoria fallimentare del pagamento del debito altrui: l’intervento delle Sezioni Unite; in Giur. it., 2010, 2081, con nota di Spiotta, La causa concreta del pagamento da parte del fallito di un debito altrui; in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, 748, con nota di Giuliano,Adempimento di debito altrui: la causa concreta quale criterio di individuazione della gratuità od onerosità dell’atto; in Fall., 2010, 799, con nota di Minutili, Onerosità e gratuità dell’adempimento del terzo, vantaggio compensativo ed onere della prova), hanno recentemente ritenuto che la valutazione di gratuità od onerosità di un negozio vada compiuta con esclusivo riguardo alla causa concreta, costituita dalla sintesi degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare, al di là del modello astratto utilizzato, e non possa quindi fondarsi sull’esistenza, o meno, di un rapporto sinallagmatico e corrispettivo tra le prestazioni sul piano tipico ed astratto, ma dipenda necessariamente dall’apprezzamento dell’interesse sotteso all’intera operazione da parte del “solvens“, quale emerge dall’entità dell’attribuzione, dalla durata del rapporto, dalla qualità dei soggetti e soprattutto dalla prospettiva di subire un depauperamento, collegato o meno ad un sia pur indiretto guadagno ovvero ad un risparmio di spesa. Trib. Alessandria 24 novembre 2009, cit. ha diversamente affermato che : “Benché dal punto di vista del disponente l’atto di trasferimento dei beni in trust abbia carattere gratuito, al fine di determinare la natura gratuita od onerosa di tale atto, occorre fare riferimento al rapporto tra disponente e destinatari, con la conseguenza che avrà natura liberale l’atto con il quale il disponente assoggetta determinati beni al trust con finalità liberali nei confronti dei beneficiari, mentre avrà natura onerosa l’atto con il quale i beni siano destinati all’adempimento di una obbligazione”. Nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto che avesse natura solutoria l’atto istitutivo di un trust finalizzato al superamento della crisi dell’impresa mediante la predisposizione di un piano ai sensi dell’art. 67, lett. d), l. fall.)». Pertanto, nell’ipotesi di estinzione da parte del terzo, poi fallito, di un’obbligazione preesistente cui egli fosse estraneo, l’atto solutorio poteva dirsi gratuito, ai predetti effetti solo quando dall’operazione – sia essa a struttura semplice perché esaurita in un unico atto, sia a struttura complessa, in quanto si componeva di un collegamento di atti e di negozi – il terzo non traesse nessun concreto vantaggio patrimoniale, avendo egli inteso così recare un vantaggio al debitore. Le Sezioni Unite hanno concluso che la causa concreta deve considerarsi onerosa tutte le volte che il terzo riceva un vantaggio per la sua prestazione dal debitore, dal creditore o anche da altri, così da recuperare anche indirettamente la prestazione adempiuta ed elidere quel pregiudizio, cui l’ordinamento pone rimedio con l’inefficacia ex lege.
[31] Da tale più ampio punto di vista, la qualificazione del conferimento dei beni in trust come atto a titolo gratuito od oneroso è certamente più delicata (Lo sottolinea anche Finmanò, Trust e procedure concorsuali, cit., 30. Sul tema della valutazione della gratuità od onerosità dell’atto in caso di trust si vedano anche Morace Pinelli, Struttura dell’atto negoziale di destinazione e del trust, anche alla luce della legislazione fiscale, ed azione revocatoria, in Contr. e impr., 2009, 487; Tucci, Trust, concorso dei creditori e azione revocatoria, in Trusts e attività fiduciarie, 2003, 34 ss.; Finmanò, Trust e procedure concorsuali, cit., 30). Va poi ricordato che è stato affermato che nel caso in cui il conferimento sia ritenuto atto a titolo oneroso e sia questione dell’azione revocatoria ordinaria, l’esistenza del consilium fraudis o per i crediti sorti successivamente della dolosa preordinazione dell’atto dovrebbe essere accertata in capo al beneficiario del trust, vale a dire nel caso del trust destinato al soddisfacimento dei creditori del disponente, in capo a questi ultimi. Tale conclusione non ci pare condivisibile, perché il diretto destinatario dell’atto di trasferimento non è il beneficiario del trust, che se ne avvantaggerà se ed in quanto i beni siano successivamente liquidati ed il ricavato gli sia devoluto, ma il trustee, in capo al quale dovrà essere verificata la sussistenza dei requisiti di legge.
[32] Cassazione civile, sez. III, 29/05/2018, n. 13388 Revocatoria ordinaria (azione) – Condizioni e presupposti (esistenza del credito, eventus damni, consilium fraudis et scientia damni) – Azione revocatoria avente ad oggetto bene in “trust” – Litisconsorzio necessario del beneficiario – Sussistenza – Condizioni – Ragioni: “Poiché l’estensione del litisconsorzio necessario è proiezione degli elementi costitutivi della fattispecie, nell’azione revocatoria ordinaria avente ad oggetto l’atto di dotazione di un bene in “trust” il beneficiario è litisconsorte necessario soltanto nel caso in cui tale atto sia stato posto in essere a titolo oneroso, dal momento che, solo in questa ipotesi, lo stato soggettivo del terzo rileva quale elemento costitutivo della fattispecie”.
[33] V. sul punto Cassazione civile, sez. III, 07/03/2017, n. 5618 in Diritto & Giustizia 2017, 8 marzo, con nota di Samantha Mendicino: “poiché anche il credito eventuale, in veste di credito litigioso, è idoneo a determinare – sia che si tratti di un credito di fonte contrattuale oggetto di contestazione giudiziale in separato giudizio, sia che si tratti di credito risarcitorio da fatto illecito – l’insorgere della qualità di creditore che abilita all’esperimento dell’azione revocatoria, ai sensi dell’art. 2901 cod. civ., avverso l’atto di disposizione compiuto dal debitore, il giudizio promosso con l’indicata azione non è soggetto a sospensione necessaria a norma dell’art. 295 cod. proc. civ. per il caso di pendenza di controversia avente ad oggetto l’accertamento del credito per la cui conservazione è stata proposta la domanda revocatoria, in quanto la definizione del giudizio sull’accertamento del credito non costituisce l’indispensabile antecedente logico – giuridico della pronuncia sulla domanda revocatoria, essendo d’altra parte da escludere l’eventualità di un conflitto di giudicati tra la sentenza che, a tutela dell’allegato credito litigioso, dichiari inefficace l’atto di disposizione e la sentenza negativa sull’esistenza del credito”. In senso conforme Tribunale Arezzo, 06/03/2018, n. 268. Inoltre si segnala Cassazione civile, sez. III, 10/01/2017, n. 240 la quale, con riferimento ad un caso di accertamento di credito contestato successivo alla stipula dell’atto pregiudizievole per il creditore, precisa che ai sensi dell’art. 2901 c.c., nell’ipotesi di credito contestato o litigioso, quand’anche l’accertamento definitivo del credito avvenga in sede giudiziale successivamente alla stipula dell’atto pregiudizievole per il creditore, quest’ultimo per ottenere l’accoglimento della propria domanda revocatoria deve provare unicamente la scientia damni del debitore e del terzo, non anche il “consilium fraudis”.
[34] Cassazione civile, sez. I, 09/05/2014, (ud. 07/02/2014, dep.09/05/2014), n. 10105; Tribunale Milano sez. I 17 gennaio 2015 n. 818: “La segregazione di tutto il patrimonio aziendale posta in essere tramite lo strumento del c.d. trust liquidatorio al fine di provvedere in forme privatistiche alla liquidazione dell’azienda sociale allorché abbia l’effetto di sostituirsi alla procedura fallimentare sopravvenuta, non permettendo di fatto ai creditori la condivisione del governo del patrimonio trasferito al trustee, è incompatibile con le norme di diritto pubblico in materia di procedure concorsuali. Ne consegue l’inesistenza giuridica del trust nel diritto interno e la sua assoluta inefficacia, nonché la nullità del conseguente trasferimento dei beni al trustee”.